Ultimo aggiornamento: 5 aprile 2023
Sebbene in assoluto vi siano più malati di cancro nei Paesi sviluppati che in quelli a basso reddito, il peso globale delle malattie oncologiche sta aumentando proprio nei Paesi in via di sviluppo, complici anche guerre e migrazioni
Il cancro è un problema di salute globale, che colpisce tutte le comunità del mondo. Studi recenti riportati dall’Organizzazione mondiale della sanità hanno confermato che la malattia colpisce prevalentemente i Paesi a più alto reddito, ma che è in rapida crescita in quelli a medio e basso reddito, anche per via dell’allungamento generale della vita media: con l’avanzare dell’età infatti cresce il rischio di sviluppare tumori. Se l’incidenza di molte altre malattie è in diminuzione, grazie al miglioramento delle condizioni di vita e dell’assistenza sanitaria, quella del cancro paradossalmente aumenta, favorita anche dall’adesione sempre più massiccia ad abitudini e comportamenti poco salutari tipici dei Paesi sviluppati, come l’alimentazione sbilanciata, il vizio del fumo e la scarsa attività fisica.
Di fatto, il cancro è diventato la seconda causa di morte a livello mondiale da oltre 10 anni, secondo i dati dell’American Cancer Society, superando il tasso di mortalità di HIV, tubercolosi e malaria messi insieme.
Se i casi sono più numerosi nei Paesi più ricchi, il tributo maggiore in termini di morti viene pagato dai Paesi in via di sviluppo. In alcuni Paesi, come l’Uganda, una persona colpita da cancro vede la sua aspettativa di vita ridursi al di sotto dei 5 anni, secondo i risultati di uno studio pubblicati di recente sulla rivista Lancet Oncology.
A peggiorare il quadro per i pazienti oncologici ci ha pensato il fenomeno migratorio, che si è acuito negli ultimi anni per via di guerre, cambiamento climatico e pandemie. “L’azione umanitaria a sostegno delle popolazioni sfollate in contesti con scarse risorse è tradizionalmente concentrata sugli aiuti d’emergenza e sul controllo delle malattie infettive” spiega Filippo Grandi, alto commissario per i rifugiati delle Nazioni unite, in carica dal 2016 fino alla metà del 2023. “Oggi, però, il cancro e altre malattie non trasmissibili sono prevalenti tra i rifugiati, e non sempre è facile rispondere a questi nuovi problemi.”
La possibilità di accesso alle cure oncologiche, per esempio, può dipendere molto dalla nazione di provenienza del rifugiato e dalla capacità locale di diagnosticare la malattia in tempo. I ritardi diagnostici sono molto frequenti tra i cosiddetti rifugiati interni, persone che non varcano il confine del proprio Paese ma lasciano le proprie case e la rete di assistenza abituale, come è accaduto di recente in Ucraina.
“Oltre a un’elevata incidenza di tumori, la maggior parte dei Paesi in conflitto ha una lunga storia di scarsi investimenti in ricerca sanitaria” continua Grandi. “Questo incide sulle competenze del personale sanitario locale: c’è meno sorveglianza generale, meno capacità di cura, il che limita anche l’efficacia delle iniziative delle agenzie internazionali per aiutare i pazienti nei loro Paesi d’origine.”
Per esempio i programmi di controllo del cancro nei Paesi del Nord Africa e dell’Africa sub-sahariana fanno sì che l’assistenza al cancro per le popolazioni locali sia molto limitata e lo sia ancora di più per coloro che migrano all’interno del continente africano. Sempre secondo l’OMS, degli oltre 420.000 rifugiati che hanno lasciato il Burundi nel periodo 2015-2017, il 20 per cento si è recato in Ruanda e il 54 nella Repubblica Unita di Tanzania, Paesi già in grave crisi sanitaria. I conflitti in Ciad, Libia e Mali e in tutto il Sahel hanno spinto i malati di cancro a cercare cure in Tunisia e oltre il Mar Mediterraneo, fino all’Italia. L’impatto di questi nuovi malati su sistemi già fragili li ha fatti collassare completamente.
“La cura del cancro è uno degli ambiti sanitari in cui le diseguaglianze pesano maggiormente” spiega Michael Marmot, professore di epidemiologia ed esperto di diseguaglianze in salute allo University College di Londra. “Alcuni studi condotti nel Sud-Est asiatico mostrano per esempio un sistema di cura del cancro a due livelli: inesistente per chi non ha soldi, relativamente efficace per chi può pagare. Ma avere soldi non basta, perché, se il Paese non è attrezzato per programmi di screening e diagnosi precoce, anche le persone benestanti scoprono di essere malate quando il cancro è già in fase avanzata e le probabilità di guarire sono minori” continua Marmot.
Uno dei fattori di rischio più preoccupanti nei Paesi in via di sviluppo è la presenza di malattie infettive, che aumentano notevolmente la probabilità non solo di avere il cancro, ma anche di morirne. In questi Paesi le infezioni sono responsabili di un decesso per cancro su quattro: basti ricordare che il Papillomavirus umano è la causa del cancro al collo dell’utero e svolge un ruolo nel cancro allo stomaco, e che le epatiti B e C, provocate rispettivamente dai virus HBV e HCV, spesso causano il cancro al fegato. Questi tumori potrebbero essere combattuti in modo molto più efficace se i sistemi di prevenzione e diagnosi precoce fossero migliorati (per esempio se si potenziasse l’accesso al Pap Test).
“Gli investimenti in strategie di prevenzione del cancro sono quasi inesistenti nei Paesi in via di sviluppo, di conseguenza quando le pazienti si recano finalmente a fare un controllo è spesso troppo tardi perché qualsiasi trattamento possa essere efficace. La prevenzione, la diagnosi precoce e l’accesso a terapie oncologiche adeguate sono gli elementi che hanno portato a un calo costante delle morti per cancro nei Paesi ricchi, più di qualsiasi nuovo farmaco, e sono le strategie da perseguire nel resto del mondo” spiega Marmot.
L’accesso alle cure merita un discorso a parte: nonostante rappresentino oltre l’80 per cento della popolazione mondiale, i Paesi in via di sviluppo hanno a disposizione solo un terzo delle strutture di radioterapia nel mondo, con oltre 30 di essi che non possiedono una sola macchina per la radioterapia. “Anche il costo dei farmaci è un ostacolo, e parliamo di farmaci di vecchia concezione” spiega Dario Trapani, esperto dell’OMS e oncologo medico del Dana Farber Institute di Boston. “L’OMS sta cercando di stabilire una modalità per calcolare i prezzi delle chemioterapie (ma anche delle nuove cure) che tenga conto del contesto sociale, dell’efficacia della cura e del guadagno in termini di anni di vita per il paziente.”
In alcune aree, le possibilità di sopravvivenza al cancro non arrivano al 20 per cento a causa del difficile e costoso accesso all’assistenza sanitaria. Mancano le risorse finanziarie, le strutture, il personale, le tecnologie o la formazione per affrontare il peso del cancro.
“La diminuzione della mortalità per cancro nei Paesi in via di sviluppo è però un obiettivo tutt’altro che irrealistico” spiega Marmot. “Più di un terzo dei 10 milioni di nuovi casi l’anno può essere prevenuto. Bisogna puntare sulla formazione del personale in loco, sullo sviluppo di una ricerca scientifica che risponda ai quesiti specifici di questi Paesi e non solo di quelli più ricchi, sulla prevenzione e, infine, sulla riduzione del costo delle cure.”
Agenzia Zoe