Ultimo aggiornamento: 3 gennaio 2022
La vaccinazione contro il papillomavirus umano e l’immunoterapia sono destinate a ridurre l’incidenza e aumentare la curabilità di queste forme di cancro.
Nel mondo occidentale una grossa parte dei tumori della testa e del collo sono causati dal papillomavirus umano (HPV). Due articoli appena pubblicati su prestigiose riviste scientifiche suggeriscono che nei prossimi decenni i casi di tumore di queste parti del corpo, associati a questa infezione, si ridurranno e che alle cure oggi disponibili potrebbe aggiungersi l’immunoterapia con gli inibitori dei checkpoint immunitari.
Il papillomavirus umano è responsabile non solo della quasi totalità dei tumori della cervice uterina, ma anche di molti tumori che interessano altre parti del corpo che si possono infettare tramite l’attività sessuale: la vagina e la vulva, il pene, l’ano e l’orofaringe. Il 40-60 per cento circa dei tumori orofaringei (della bocca e della gola) dipende da un’infezione da HPV contratta attraverso il sesso orale.
Nel 2006 però è stato introdotto il primo vaccino contro l’HPV e da allora ne sono stati sviluppati altri che proteggono da più ceppi di papillomavirus. I dati sinora raccolti in tutto il mondo hanno dimostrato che l’introduzione della vaccinazione ha portato a una consistente riduzione dei casi di infezione e della frequenza di patologie che dipendono da questo virus. In Italia il vaccino anti-HPV è offerto gratuitamente alle ragazze e ai ragazzi nel dodicesimo anno di età, prima che diventino sessualmente attivi e siano esposti al rischio di contagio.
Gli esperti hanno stimato che il tumore della cervice potrebbe essere sconfitto a livello globale entro la fine del XXI secolo, nei Paesi più ricchi già attorno al 2040. Quale sarà invece l’impatto della vaccinazione sui tumori dell’orofaringe? Se lo sono chiesti alcuni ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora, che hanno simulato matematicamente quale potrà essere l’incidenza dei tumori dell’orofaringe da qui al 2045 negli Stati Uniti.
La buona notizia è che, in base alla previsione, i casi di tumori dell’orofaringe dovrebbero diminuire considerevolmente nei giovani adulti, già coinvolti dalla campagna vaccinale. Entro il 2045 gli esperti stimano che l’incidenza di questo tipo di tumori si sarà ridotta del 48,1 per cento tra gli uomini e del 42,5 per cento tra le donne con un’età compresa tra 36 e 45 anni, e del 9,0 per cento tra gli uomini e del 22,6 per cento tra le donne con un’età compresa tra 46 e 55 anni. Tra il 2018 e il 2045, grazie alla vaccinazione, negli USA si dovrebbero verificare 6.300 casi in meno, il 90 per cento circa dei quali avrebbero interessato individui con meno di 56 anni. Dato che le persone più anziane, già adulte quando il vaccino si è reso disponibile e quindi non vaccinate, rimangono a rischio per il tumore dell’orofaringe, tre decenni non basteranno per osservare un effetto in tutta la popolazione e per quello occorrerà più tempo. I dati sono stati pubblicati sulla rivista JAMA Oncology.
La seconda buona notizia riguarda le cure. I ricercatori della Emory University di Atlanta hanno scoperto che i tumori della testa e del collo positivi per l’HPV contengono una popolazione di globuli bianchi che può essere stimolata a combattere le cellule tumorali con gli inibitori dei checkpoint immunitari (ICI).
I checkpoint immunitari sono molecole del nostro sistema di difesa che frenano reazioni troppo forti o inappropriate del sistema stesso. Le cellule dei tumori prosperano anche grazie al fatto che tali “freni” a volte inibiscono le cellule del sistema immunitario dall’uccidere le cellule tumorali stesse. Oggi tuttavia disponiamo di anticorpi monoclonali che sono in grado di sbloccare i checkpoint immunitari, ripristinando l’attività antitumorale dei globuli bianchi.
In un articolo pubblicato di recente sulla rivista Nature, un gruppo di ricercatori americani ha dimostrato che fino al 10 per cento dei linfociti T CD8-positivi specifici per l’HPV che si localizzano nei tumori del distretto testa-collo esprime PD-1, uno dei checkpoint immunitari noti. Tali linfociti T citotossici, che possono causare la morte di cellule maligne o infettate da virus, potrebbero rispondere alla terapia con pembrolizumab e nivolumab, anticorpi monoclonali che bloccano PD-1. L’incoraggiante ipotesi andrà naturalmente verificata in studi clinici appositamente progettati.
Agenzia ZOE