Ultimo aggiornamento: 7 giugno 2021
In molte neoplasie ematologiche il trapianto di midollo è una forma efficace di terapia, purché non si scateni una reazione immunitaria contro l’organismo. A Perugia c’è chi sta studiando una strategia per evitare questo problema
C'è stato un giorno nella vita professionale di Antonio Pierini in cui il regalo di un paziente lo ha toccato nel profondo, tanto da permettergli di superare con il sorriso anche il lieve imbarazzo dovuto all’arrivo del direttore della Struttura di ematologia e trapianto di midollo osseo dell’Ospedale universitario di Perugia, Brunangelo Falini: “Avevo ricevuto in dono una maglietta appartenuta a Gaetano Castrovilli, calciatore della mia amata Fiorentina, e me ne andavo in giro per l’ospedale al settimo cielo, con un’espressione estatica che aveva suscitato stupore e curiosità nel professor Falini” ricorda con tono divertito. “Quando gli studenti gli spiegarono il motivo, lui sembrò non capire tanto entusiasmo, ma per me quella maglia viola era anche un segno tangibile del valore del molto tempo passato a parlare con i miei pazienti, e dell’intimità che spesso si crea con loro.”
Per Antonio l’ematologia era di famiglia, visto che la mamma Cecilia, oggi in pensione, lavorava nel day hospital ematologico di Cortona, in provincia di Arezzo, dove lui ha frequentato il liceo classico. Tuttavia aveva a lungo pensato che avrebbe seguito altre strade, anche perché lei gli aveva sempre sconsigliato di iscriversi a medicina: “Negli anni del liceo classico, che ho amato tanto, mi accompagnava a scuola in macchina, e in quella mezz’oretta di strada da Castiglione del Lago parlavamo spesso anche del suo lavoro all’ospedale di Cortona, all’epoca ancora ospitato nei locali di un vecchio convento molto bello”.
Nell’anno della maturità segue i pre-corsi di ingegneria informatica della Normale di Pisa, ma decide anche di iscriversi al test per l’ammissione a numero chiuso alla Facoltà di medicina a Perugia. “Alcuni amici che avevano chiaro in mente di voler fare medicina non passarono il test, mentre io, che non ho mai amato programmare molto le mie scelte di vita, riuscii a entrare” racconta. “All’inizio mi appassionai alla chirurgia, perché mi piaceva usare le mani, tanto che volevo discutere la mia tesi di laurea in chirurgia toracica.”
Fu durante un tirocinio con una docente con cui aveva già sostenuto l’esame di ematologia che fu stregato dal fascino della diagnosi: “L’esperienza con la professoressa Cristina Mecucci mi gettò in una crisi esistenziale, intensa ma breve, e mi fece capire che mi sarei dedicato a questa disciplina molto particolare, in cui la ricerca sui campioni di sangue che si possono ottenere facilmente è importantissima, e c’è l’immediata possibilità di occuparsi del paziente, stabilendo un legame che rende la vita professionale complicata ma trascinante e coinvolgente”.
L’altra passione che accompagna Antonio è quella per lo sport: per anni ha calcato i campi di calcio con il fischietto in mano, pronto a dispensare cartellini gialli e rossi, ma è grazie alla racchetta da tennis che nel periodo dell’università conosce la futura moglie Sabrina, che studia legge: chiacchierando a una festa di amici comuni scopre che a lei serve un quarto per una partita, e si offre.
Dopo la laurea in medicina, nel 2006, inizia per Antonio un percorso complicato: prima di riuscire a entrare nella scuola di specializzazione in ematologia, nella primavera del 2008, lavora come guardia medica e fa un corso per diventare ecografista. Da specializzando incontra quello che diventerà il suo principale mentore, Massimo Fabrizio Martelli, che con il suo carisma è capace di trascinare ed entusiasmare i giovani come Antonio.
È Martelli che un giorno, di punto in bianco, gli comunica che l’indomani verrà spostato dal gruppo che si occupa di ematologia di base – in cui Antonio aveva cominciato a prendere dimestichezza con la disciplina – al gruppo che si occupa di trapianti: “Si diceva che lì c’era più confusione, meno chiarezza, più possibilità di esplorazione e meno linee guida” ricorda oggi. “È un campo in cui servono la voglia di esplorare e il coraggio di agire.”
Se le probabilità di sopravvivenza dei malati di leucemia mieloide acuta sono oggi molto aumentate lo si deve anche alle novità che venivano sperimentate e introdotte proprio dal gruppo di Perugia. Martelli spinse per concentrarsi sul trapianto di midollo da donatore non compatibile, tipicamente un fratello o una sorella, il che avrebbe permesso di superare la storica difficoltà di trovare un donatore. E il giovane specializzando si ritrovò a essere “spedito in un mondo di incertezze”.
A differenza dei trapianti d’organo, che di norma richiedono l’assunzione a vita di farmaci antirigetto per prevenire l’aggressione del nuovo organo da parte del sistema immunitario del paziente che lo riceve, il trapianto di midollo osseo presenta una sfida diversa, in un certo senso opposta, legata alla cosiddetta malattia del trapianto contro l’ospite (in inglese graft versus host disease, in sigla GVHD).
Per usare una metafora calcistica, è come se il nuovo acquisto che entra in campo non riconoscesse né i compagni né le magliette delle squadre, e cercasse di fare goal anche nella propria porta, commettendo fallo nei confronti dei propri compagni di squadra, e lasciando interdetto anche l’arbitro.
È all’Università di Stanford, dove approda nel 2012 grazie alla prima borsa AIRC, che Antonio comincia ad approfondire le sue conoscenze sul delicato equilibrio tra attacco e difesa, e impara a distinguere sempre meglio tra quello che nel calcio sarebbe un intervento ruvido ma corretto e il fallo meritevole di sanzione. Era partito per gli USA con l’idea di restare un anno dopo aver sposato Sabrina, che lo aveva poi raggiunto in California trovando lavoro in una scuola italiana di San Francisco, ma un premio scientifico gli spiana la strada per restare come Postdoctoral Fellow (anche se formalmente il titolo di PhD lo conseguirà dopo il rientro in Italia nel 2017). Stregati dall’Hotel California cantato dagli Eagles, rimarranno per oltre quattro anni, ricchi di sport e di viaggi su una vecchia Volkswagen Passat acquistata usata, durante i quali nascono i due figli Leonardo e Lavinia.
Intanto approfondisce sempre meglio la conoscenza di una particolare popolazione di cellule del sistema immunitario, le cellule T regolatorie, alla base, nell’organismo sano, del meccanismo di tolleranza, che permette al sistema immunitario di riconoscere le cellule del proprio organismo e di non aggredirle. In un certo senso, le cellule T regolatorie (abbreviate T-reg) controllano l’eccesso di risposta immunitaria, con due meccanismi differenti detti di tolleranza centrale e tolleranza periferica, ovvero quella relativa a specifici organi. Usando ancora una metafora calcistica, l’organismo le usa per ricordare ai muscolosi difensori del sistema immunitario sia in che squadra giocano, sia i limiti del gioco scorretto, senza per questo punire il sano agonismo.
La leucemia mieloide acuta (LMA) è una malattia che colpisce il midollo osseo. È definita “acuta” perché si sviluppa rapidamente. Secondo i dati più aggiornati dell’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM), ogni anno sono poco più di 2.000 i nuovi casi di leucemia mieloide acuta in Italia. La malattia colpisce in particolare in età matura, dopo i 60 anni, con una predilezione per i maschi. È meno frequente prima dei 45 anni.
Nei bambini fino a 14 anni, tuttavia, rappresenta il 13 per cento dei casi di leucemia. La chemioterapia o la radioterapia, secondo i casi, vengono impiegate per eliminare le cellule leucemiche (blasti) presenti nel sangue e riportare le cellule sane del midollo osseo a livelli normali. Una volta raggiunta la remissione completa, cioè la scomparsa di segni e sintomi – con una presenza di blasti nel midollo inferiore al 5 per cento, un conteggio delle cellule del sangue normale e nessun segno clinico di leucemia –, inizia la fase cosiddetta di consolidamento che punta a eliminare le cellule tumorali residue. Qui entra in gioco il trapianto di cellule staminali ematopoietiche. In pazienti selezionati per cui è stato individuato un donatore adatto, le cellule staminali sono capaci di generare quelle del sangue completando la guarigione.
La ricerca di Pierini punta a rendere più efficace il trapianto, concentrandosi sui pazienti ad altissimo rischio di recidiva. L’approccio descritto in uno studio finanziato da uno Start-Up Grant AIRC ha ottenuto un forte aumento della sopravvivenza a due anni dal trapianto, passata dal 20 al 70 per cento.
Come in certe partite in cui la posta in gioco è alta, anche la tempistica degli interventi arbitrali può fare la differenza: il gruppo di Perugia, che oggi fa capo al Centro di ricerca emato-oncologica (CREO) che Pierini ha trovato al suo rientro nel 2016, ne ha avuto la conferma con uno studio pubblicato in marzo sulla rivista Blood Advances, studio coordinato da Pierini e dalle colleghe Loredana Ruggeri e Alessandra Carotti sotto la guida di Andrea Velardi, direttore del programma trapianto di Perugia, e di Cynthia Aristei, direttrice della radioterapia oncologica. Quando le cellule T-reg vengono infuse quattro giorni prima del trapianto vero e proprio di cellule staminali e con tre giorni di anticipo rispetto ai linfociti T, si ottimizza l’equilibrio tra attacco e difesa, tra la capacità di tenere a bada le recidive e il rischio di causare danni, provocando la temibile malattia da trapianto contro l’ospite. In questo modo i pazienti con forme finora considerate ad alto rischio ottengono risultati simili agli altri. Ora il gruppo, grazie a uno Start-Up Grant di AIRC, sta ampliando la casistica, per verificare su numeri più significativi anche altre terapie che potrebbero portare ad aumentare ulteriormente la percentuale di sopravvivenza a due anni di tutti i pazienti, idealmente fino all’85 per cento.
Nel 2016 Pierini è diventato ricercatore universitario, e più di recente responsabile del laboratorio di manipolazione cellulare, e persegue instancabilmente un progetto ambizioso: “Non mi pesa per niente andare al lavoro, perché lavoriamo per trasformare il trapianto di midollo, che è nato come forma di immunoterapia primordiale, in un’immunoterapia sempre più sofisticata ed efficace” conclude. E poi precisa: “Sono circondato da persone che mi aiutano a ricordare sempre come al centro di quello che faccio ci sia l’essere umano”.
Fabio Turone (Agenzia ZOE)