Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Il caso del ricercatore di Candiolo illustra bene quanto l'oncologia clinica e la ricerca di base siano sempre più interconnesse, soprattutto in malattie come il cancro del colon-retto.
Si divide tra il laboratorio di Medicina traslazionale dell'Istituto oncologico di Candiolo, a pochi chilometri da Torino, e il Politecnico, tra analisi dei dati, meeting di laboratorio e videoconferenze: Andrea Bertotti è un brillante ricercatore del Dipartimento di oncologia dell'Università di Torino che può già vantare molte pubblicazioni su importanti riviste scientifiche, come quelle del gruppo di Nature e di Science.
La sua è una ricerca traslazionale i cui risultati sono già arrivati al letto del paziente, e riguarda i meccanismi genetici alla base della resistenza alle cure nel cancro del colon-retto. I dati di mortalità e di sopravvivenza di questo tumore sono migliorati per merito di una diagnosi sempre più precoce ma anche grazie all'introduzione di nuovi farmaci biologici. Solitamente, il trattamento con anticorpi monoclonali come cetuximab e panitumumab, che inibiscono l'attività del fattore di crescita epidermico (EGFR), permette di bloccare l'avanzata del tumore. Tuttavia questi farmaci non sono efficaci in presenza di mutazioni in geni della famiglia RAS che caratterizzano quasi la metà dei tumori del colon.
È qui che si inserisce il lavoro di Bertotti, che ha trovato presto la sua vocazione nella ricerca, e in particolare nello studio sulla resistenza ai farmaci.
"Sapevo fin da subito che avrei fatto ricerca. Tuttavia, come dico sempre ai ragazzi negli incontri con le scuole organizzati da AIRC, io penso che a definire un ricercatore non sia tanto la passione per un argomento specifico ma una forma mentis. Parlo della curiosità, della pulsione a porsi domande e del non essere mai soddisfatti delle spiegazioni che ricorrono a dogmi, ai cosiddetti dati di fatto" spiega Andrea Bertotti, figlio di un'insegnante e di un ricercatore, il fisico Giorgio Bertotti dell'Istituto nazionale di ricerca metrologica di Torino.
"Dopo il liceo scientifico, ero indeciso tra Filosofia, Economia e Biologia, tutti ambiti in cui volevo capire di più" spiega. Dopo il superamento del test di Medicina, è stato naturale iscriversi a quel corso di laurea, "pur sapendo che non avrei mai fatto il medico. Dopo il primo anno, ho iniziato a cercarmi subito un laboratorio. E dal secondo anno, ero già qui al lavoro come studente tesista". Dalla laurea al dottorato e al post dottorato, intraprendere una "vita da ricercatore" è venuto quasi naturale.
Nonostante ciò, Bertotti sfata il mito delle "notti passate al bancone". "Il nostro lavoro impone ovviamente di fare degli extra, soprattutto nel caso di scadenze importanti. Ma non faccio le ore piccole in laboratorio". Ciò regala una certa flessibilità e libertà di lavorare anche da casa quando necessario e quando deve andare a prendere a scuola Lorenzo, di nove anni, e Alice, di sette. La sua compagna, Barbara, è una biologa, si sono incontrati in Istituto dove lei gestisce uno dei servizi di supporto alla ricerca. "Condividere l'ambiente di lavoro aiuta a conoscerne i limiti e le necessità, ma le nostre routine sono diverse" ci racconta il ricercatore, che può contare sull'aiuto di tutti e quattro i nonni. "Io e Barbara non ci siamo avvicinati per interessi scientifici, quindi non discutiamo tutto il tempo di scienza".
Lorenzo, il più grande dei figli, è già molto curioso e con lui Andrea parla senza problemi delle sue ricerche. Forse, qualche riserva appare quando si affronta il tema della sperimentazione animale, "sulla quale esiste un problema nella nostra società" spiega il ricercatore. "Io ne parlo spesso in pubblico, ma non vorrei venissero trasmessi messaggi sbagliati ai compagni dei miei figli e ai loro genitori". Nel nostro Paese manca un dibattito su molti temi legati alla scienza, come appunto la sperimentazione animale, e Bertotti considera la sua testimonianza fuori dai laboratori una parte importante del proprio lavoro.
La maggior parte del tempo, però, la dedica a capire quali sono i meccanismi alla base delle diverse reazioni delle cellule neoplastiche ai farmaci che possono spiegare la comparsa di resistenze. Per scoprirlo, il ricercatore torinese, insieme a Livio Trusolino e in collaborazione con la Johns Hopkins University di Baltimora, ha analizzato il DNA di circa 200 tumori di cui era nota la risposta agli anti-EGFR. Il progetto, finanziato grazie al Programma 5 per mille di AIRC e coordinato da Paolo Comoglio, ha portato alla creazione di una biobanca di tumori. Si tratta di un archivio di campioni di tessuto tumorale prelevato da pazienti con carcinoma del colon-retto e metastasi epatiche, un indice di scarsa responsività alle cure. Analizzando in laboratorio il profilo genetico di questi pazienti refrattari alle cure con anticorpi monoclonali, i cosiddetti "non responders", si possono individuare dei marcatori biologici predittivi della resistenza e selezionare in anticipo quali sottogruppi di pazienti possono beneficiare della terapia, escludendo tutti gli altri e risparmiando loro un trattamento che si rivelerebbe inutile e potrebbe avere effetti collaterali e tossicità.
"L'idea di base è che alcune combinazioni di alterazioni genetiche, diverse le une dalle altre, cambino il decorso del tumore indipendentemente dalla sede di malattia" spiega Bertotti. "Sapere se e quando una certa combinazione può rendere un tumore resistente o sensibile a uno specifico farmaco ci aiuta anche a individuare nuove terapie mirate".
Oltre a consentire un taglio dei costi, evitando cure inefficaci, questo approccio permette anche di individuare la sensibilità del paziente alle opzioni farmacologiche alternative sulla base delle caratteristiche genetiche della malattia. Per fare ciò, i ricercatori del gruppo di Bertotti hanno fatto un passo avanti rispetto alla semplice descrizione delle caratteristiche genetiche, ricorrendo agli xenotrapianti.
"Quando si opera il paziente per rimuovere le metastasi epatiche di tumore del colon-retto, si conserva parte del tessuto tumorale e lo si impianta in topi che hanno un sistema immunitario compromesso. In questo modo il tessuto attecchisce ed è possibile testare sull'animale la cura prima di proporla al malato" spiega Bertotti, che si è aggiudicato un Consolidator Grant di 2 milioni di euro del Consiglio europeo della ricerca per portare avanti questo studio.
Il progetto, chiamato BEAT, è partito lo scorso ottobre. Anche i pazienti che guariscono possono avere una malattia residua, un serbatoio di cellule da cui il tumore potrebbe ripartire anche dopo mesi o anni. Sono cellule tumorali che hanno caratteristiche tali da consentire loro di sopravvivere nell'ambiente nonostante la presenza del farmaco. BEAT indagherà a fondo i meccanismi con cui queste cellule imparano a evitare gli effetti dei farmaci e cercherà di capire se si tratta dello stesso percorso che porta alla farmacoresistenza, attraverso il meccanismo smo adattativo con il quale le cellule cancerose diventano tolleranti al trattamento con cetuximab.
Andrea Bertotti è impegnato anche nello studio di una nuova promettente cura messa a punto dal progetto Heracles, finanziato con il Programma 5 per mille di AIRC.
"Abbiamo visto che il gene HER2 è alterato e amplificato nel 10 per cento dei casi di carcinoma del colon-retto resistente ai trattamenti convenzionali con farmaci biologici. Quindi è partita la sperimentazione con pazienti con tumore metastatico al colon refrattario al trattamento standard e caratterizzato proprio da una mutazione del gene HER2. Con un cocktail di due farmaci mirati, il tumore si è fermato, in alcuni casi è regredito, e in un caso è del tutto scomparso". Colpire HER2 ha permesso di ottenere risultati inattesi per pazienti altrimenti senza speranze: "Un'ottima notizia che ora è necessario consolidare dal punto di vista clinico" dice Bertotti, consapevole che la strada dal suo laboratorio al paziente è sempre più breve.
Fare ricerca sulle caratteristiche genetiche dei tumori resistenti è estremamente complesso e richiede la perfetta gestione di un'enorme quantità di dati come quelli di genomica, trascrittomica e proteomica relativi ai campioni di tessuto prelevati sia dai malati sia dagli animali in cui è stato effettuato lo xenotrapianto. Infine è necessario incrociare tutte queste caratteristiche con le ipotesi terapeutiche formulate. "Già nel 2010, la collezione di tumori aveva superato il centinaio di campioni e il numero di esperimenti iniziava a crescere" racconta Andrea Bertotti, che per trascrivere i dati nel computer impiegava un'intera giornata a settimana. "Fu allora che mi resi conto che per la gestione era necessaria una digitalizzazione, per ragioni di tempo e di precisione". Così è nata la Laboratory Assistant Suite (LAS), una piattaforma bioinformatica integrata per la gestione e l'analisi dei dati, da quelli genetici a quelli preclinici, tutti identificabili con codice a barre e consultabili in tempo reale da remoto. Il progetto, cui Bertotti ha dedicato il suo dottorato e che continua tuttora a supervisionare, è stato condotto con il Politec-nico di Torino. Oggi conserva la storia di quasi 8.000 animali e 20.000 misurazioni: "La sua struttura modulare consente di gestire contemporaneamente la biobanca, i dati biologici, le linee cellulari, i dati molecolari dei singoli animali e l'evoluzione della malattia sulla base del trattamento". È a disposizione di tutti, perché "il futuro è nella condivisione e nella standardizzazione, che consentono di mettere a frutto il lavoro del singolo ricercatore".
Nicla Panciera