Ultimo aggiornamento: 22 novembre 2024
Tra le strategie valutate negli ultimi studi, dai risultati incoraggianti, ce n’è una che sembra ispirata a due vecchi videogiochi.
L’immunoterapia basata sulle cellule CAR-T ha rivoluzionato il trattamento dei tumori del sangue, offrendo una speranza a pazienti per cui erano state esaurite tutte le opzioni terapeutiche. Molti gruppi di ricerca stanno lavorando alacremente per estendere l’utilizzo delle cellule CAR-T al trattamento dei tumori solidi. I risultati di alcuni studi suggeriscono che i ricercatori sono sulla strada giusta.
Le cellule CAR-T sono linfociti T (un tipo di globuli bianchi) prelevate dal paziente e modificate in laboratorio in modo che esprimano una proteina, il cosiddetto “recettore chimerico per l’antigene” (in breve CAR, dall’acronimo dell’inglese “chimeric antigen receptor”). I linfociti così modificati possiederanno dunque un recettore in grado di riconoscere e legare in maniera specifica le cellule tumorali del paziente, per poi distruggerle. Dalla teoria alla pratica, però, non tutto funziona sempre come previsto.
Nel caso delle leucemie e dei linfomi, due tipi di tumori del sangue, le cellule CAR-T vengono infuse per via endovenosa, raggiungono il bersaglio e lo attaccano. I tentativi fatti finora di utilizzare lo stesso metodo di somministrazione per colpire una massa tumorale solida hanno avuto rari successi: le cellule CAR-T faticano infatti a penetrare all’interno del tumore.
Alcuni ricercatori che stanno studiando terapie CAR-T contro il glioblastoma, un tumore cerebrale ancora difficile da curare, hanno deciso di cambiare strategia. Per far arrivare le cellule a destinazione, hanno pensato di ricorrere a un’infusione intracerebrale. Sembra che questo sistema potrebbe funzionare, come dimostrano i risultati di 3 ricerche, pubblicati quasi contemporaneamente.
Per ottenere i risultati contenuti nel primo articolo, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, i ricercatori del City of Hope Research Institute, California, hanno coinvolto 65 pazienti con glioblastoma. Le cellule CAR-T sono state equipaggiate con un CAR che riconosce l’antigene IL-13Rα2, presente sulle cellule tumorali di tali pazienti. L’infusione intracerebrale si è dimostrata sicura e sono state osservate alcune risposte promettenti.
Per raccogliere i dati del secondo studio, anch’esso pubblicato su Nature Medicine, alcuni ricercatori del Glioblastoma Translational Center of Excellence dell’Università della Pennsylvania a Philadelphia hanno cercato di aumentare l’efficienza delle CAR-T, scegliendo due antigeni bersaglio: IL-13Rα2 e EGFR, presenti nel tumore dei pazienti. Quando le cellule sono state iniettate direttamente nel liquido rachidiano, che bagna il cervello, sono stati osservati segnali di efficacia incoraggianti, seppure per ora soltanto in 6 pazienti.
Il terzo articolo, nato dallo studio INCIPIENT, è stato pubblicato da ricercatori del Massachusetts General Cancer Center e della Harvard Medical School di Boston, che hanno deciso di combinare due “strategie di attacco”. Le cellule messe a punto da questi scienziati hanno un CAR che riconosce una variante del recettore EGFR, presente sulle cellule tumorali. Inoltre, sono in grado di rilasciare un anticorpo che lega la forma standard di EGFR, non espressa dal cervello sano e quasi sempre presente sulle cellule di glioblastoma.
“In questo caso la cellula CAR-T aggredisce il tumore come ci si aspetta con questo tipo di terapia, ma produce anche una sorta di CAR solubile che intercetta l’antigene a distanza, attivando una risposta immune da parte di linfociti diversi dai CAR-T” spiega Massimo Dominici. Professore ordinario di oncologia e direttore del laboratorio di terapie cellulari dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Dominici è da anni impegnato nella ricerca di terapie geniche per i tumori solidi, anche grazie al sostegno di Fondazione AIRC.
Dominici è anche ex-presidente della International Society for Cell and Gene Therapy (ISCT). Oggi è membro del comitato di esperti dell’International Nonproprietary Names Programme dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), chiamati a stabilire i nomi generici dei nuovi farmaci e trattamenti. Dominici fa in particolare parte del sottogruppo che si occupa delle terapie a base di cellule. Data la natura della terza terapia citata sopra, per il nome si è cercato di introdurre una similitudine: si può immaginare la molecola solubile, quella rilasciata dalle cellule che i ricercatori hanno chiamato TEAM (acronimo dell’inglese “T-cell–engaging antibody molecule”), come un piccolo missile, che viene lanciato dalle cellule CAR-T quando si agganciano al bersaglio. “Aggredisci e lanci missili: è un po’ come se ci fossero contemporaneamente un Pac-man che mangia il tumore e i proiettili di Space invaders”, ha suggerito Dominici, citando due celebri videogiochi degli anni Ottanta. “Non è detto che sia la strategia perfetta, però è una tecnologia molto fine”.
I ricercatori hanno valutato le cellule CARv3-TEAM-E in 3 pazienti, iniettandole direttamente nel cervello e ripetendo il trattamento più di una volta. Come riportato sul New England Journal of Medicine, la terapia cellulare ha portato a una rapida e drastica riduzione del tumore in tutti e 3 i pazienti. In uno di loro, la risposta è stata anche duratura.
Complessivamente questi risultati suggeriscono che somministrare le cellule CAR-T dove devono svolgere la loro azione antitumorale può fare la differenza. Se questi risultati fossero confermati in studi clinici più ampi, si potrebbe allora pensare di usare altre vie di somministrazione locale, a seconda del tumore, per esempio nella pleura per i tumori del polmone, nel pancreas per i tumori pancreatici e via dicendo. La soluzione scelta dovrà essere, ovviamente, adattata all’organo di destinazione.
Agenzia Zoe