La terapia ormonale dei tumori

La terapia ormonale si utilizza per il trattamento di quei tumori la cui crescita è stimolata da ormoni come gli estrogeni o gli androgeni, e si basa sulla somministrazione di farmaci in grado di bloccare la produzione di questi ormoni.

Ultimo aggiornamento: 4 agosto 2020

Tempo di lettura: 23 minuti

Gli ormoni sono molecole prodotte nell'organismo da ghiandole appartenenti al sistema endocrino. Regolano l'attività di organi specifici che raggiungono attraverso il circolo sanguigno anche in aree distanti da quella in cui sono stati prodotti.

Ormoni come gli estrogeni o gli androgeni possono stimolare la crescita di alcuni tumori al seno o alla prostata., Pertanto la terapia ormonale – chiamata anche ormonoterapia o terapia endocrina – ha l’obiettivo di impedire la produzione di tali ormoni o di bloccarne l’azione di stimolo alla moltiplicazione delle cellule cancerose, la cosiddetta azione proliferativa.

A cosa serve la terapia ormonale dei tumori

La terapia ormonale può ridurre il rischio di recidiva, ovvero la probabilità che il tumore si ripresenti dopo la conclusione di altri trattamenti (intervento chirurgico, radioterapia e/o chemioterapia) oppure può contribuire a ridurre per un certo periodo i sintomi di una malattia in fase più avanzata. Se gli altri trattamenti non sono indicati, può essere l'unico tipo di cura adottata.

La terapia ormonale viene usata anche come terapia neoadiuvante, ovvero per ridurre le dimensioni del tumore prima dell'intervento chirurgico. Potrebbe anche essere adoperata come terapia di farmaco-prevenzione in persone sane ma ad alto rischio, per prevenire la comparsa di alcuni tipi di tumore, ma sul rapporto fra rischi e benefici di questo tipo di approccio gli esperti hanno pareri discordanti.

Per quali tipi di tumore viene utilizzata la terapia ormonale

La terapia ormonale può essere utilizzata solo per tumori sensibili all'azione degli ormoni utilizzati, quali:

  • il tumore del seno HR positivo: l’acronimo HR (da Hormon Receptor) identifica i tumori caratterizzati dalla presenza di recettori per gli ormoni femminili. Sono di due tipi: positivi per gli estrogeni (ER+) e positivi per il progesterone (PR+). Rappresentano circa il 70 per cento di tutti i carcinomi della mammella;
  • il tumore della prostata;
  • il tumore dell'endometrio, il rivestimento interno dell'utero;
  • il tumore dell'ovaio.

Quali sono i farmaci utilizzati nella terapia ormonale dei tumori

Le principali classi di farmaci utilizzate sono:

  • modulatori selettivi dei recettori estrogenici (SERMs): a seconda dell’organo bersaglio svolgono un’azione pro-estrogenica o anti-estrogenica; sono tamoxifene, raloxifene, arzoxifene, lasoxifene;
  • inibitori dell’aromatasi: inibiscono l’enzima aromatasi, presente nel grasso corporeo, nei muscoli e nel fegato, che a sua volta converte gli androgeni in estrogeni; sono anastrozolo, letrozolo, exemestane;
  • LHRH analoghi agonisti: nella donna inibiscono la produzione degli estrogeni da parte delle ovaie con conseguente blocco del ciclo mestruale (ablazione o soppressione ovarica); nell’uomo inibiscono la produzione di testosterone da parte dei testicoli.

I farmaci registrati in Italia sono triptorelina embonato, goserelin, leuprorelina acetato;

  • LHRH analoghi antagonisti: hanno lo stesso effetto finale degli agonisti, ma agiscono in maniera diversa in sede centrale ipotalamica. L’unico composto di questo tipo registrato in Italia è il degarelix, utilizzato nella neoplasia della prostata;

 

Altri farmaci usati sono il fulvestrant, il medrossiprogesterone acetato e il megestrolo acetato, e nell’uomo gli antiandrogeni abiraterone acetato, enzalutamide e apalutamide.

Quali sono gli effetti collaterali della terapia ormonale

La terapia ormonale è in genere ben tollerata e provoca effetti collaterali gravi solo in rari casi. Tuttavia può comportare una serie di disturbi di entità variabile a seconda del tipo di composto.

In uomini e donne può provocare:

  • vampate di calore e sudorazione abbondante;
  • dolori articolari e osteo-muscolari;
  • riduzione della densità ossea, quindi osteoporosi (in particolare gli inibitori dell’aromatasi, da soli o in associazione agli analoghi dell’LHRH);
  • calo del desiderio sessuale;
  • sbalzi di umore;
  • senso di stanchezza e affaticamento;
  • difficoltà di memoria;
  • aumento di peso;
  • disturbi digestivi;
  • disturbi della circolazione venosa.

 

Nelle donne, in misura variabile a seconda dei diversi trattamenti, si possono riscontrare:

  • alterazioni o totale sospensione del ciclo mestruale;
  • secchezza vaginale.

 

Negli uomini, in misura variabile a seconda dei diversi trattamenti, si possono riscontrare:

  • difficoltà di erezione;
  • dolore e tensione a livello mammario.

 

Alcuni farmaci, nelle prime fasi del trattamento, possono paradossalmente aumentare la stimolazione ormonale e quindi intensificare i sintomi della malattia (come per esempio i disturbi urinari nel caso del cancro alla prostata), ma il fenomeno – detto “flare-up o tumour flare” – è transitorio e può essere tenuto sotto controllo.

 

Sebbene interferiscano con l'attività sessuale e riproduttiva, questi medicinali non hanno una specifica attività anticoncezionale: occorre tenerlo presente perché, anche se alcune di queste cure non impediscono la possibilità di una gravidanza nel corso del trattamento o appena questo viene sospeso, possono invece interferire con il corretto sviluppo del feto.

Terapia ormonale per il tumore del seno

Molti tumori del seno hanno sulla superficie delle loro cellule recettori per gli estrogeni, per il progesterone o per entrambi. Per verificare tale condizione, si effettua un esame istologico sul materiale prelevato nel corso di una biopsia o dell'intervento chirurgico, Se i recettori sono effettivamente presenti, si dice che il tumore è positivo per i recettori degli estrogeni (ER+) e/o per quelli del progesterone (PR+). Ciò significa che gli ormoni sessuali femminili stimolano la crescita della massa tumorale, e che quindi la terapia ormonale è indicata. Questo tipo di trattamento non viene preso in considerazione se il tumore non presenta i recettori (ed è quindi detto "negativo" per questi due fattori).
La scelta del tipo di trattamento da adottare nei singoli casi, oltre che dal grado di avanzamento della malattia, dipende dal fatto che la donna sia già entrata o meno in menopausa.

Prima della menopausa, la maggior parte degli ormoni sessuali femminili circolanti è liberata nel sangue dalle ovaie. Dopo la menopausa, invece, le ovaie non producono più ormoni e gli estrogeni circolanti sono prodotti da tessuti periferici dell'organismo (soprattutto il tessuto adiposo e i muscoli) a partire dagli androgeni prodotti dalle ghiandole surrenali.

 

Nella scelta del tipo di trattamento incidono anche l'età della donna e il suo desiderio di poter eventualmente avere dei figli dopo le cure. Non si deve esitare a discutere con i propri medici di questo aspetto prima dell'inizio del trattamento perché esistono vari modi per preservare, quando possibile, la fertilità. La menopausa precoce indotta da alcuni di questi trattamenti, infatti, può essere reversibile e la crioconservazione degli ovociti prelevati prima dell'inizio delle cure in alcuni casi lascia aperta la possibilità di ricorrere in un secondo tempo a tecniche di procreazione assistita.

 

Quando si effettua la terapia ormonale per il tumore del seno?

In alcuni casi il trattamento viene prescritto prima dell'intervento chirurgico, per ridurre le dimensioni del tumore da asportare, ma nella maggior parte dei casi si inizia dopo l'intervento (e dopo la chemioterapia, se questa è ritenuta necessaria) e si prosegue per cinque anni, con lo scopo di contrastare un possibile ritorno della malattia. In altri casi la terapia ormonale viene intrapresa in seguito alla ricomparsa della malattia o quando questa viene diagnosticata già in fase avanzata.

 

È ancora dibattuta invece l'opportunità di somministrare questi medicinali per la prevenzione della malattia in donne sane ma ad alto rischio di carcinoma mammario invasivo positivo agli estrogeni, per esempio a causa di una forte familiarità per il cancro della mammella. Nel 2019 la US Preventive Service Task Force ha pubblicato sulla rivista JAMA il risultato di un’analisi di studi precedenti che hanno coinvolto oltre 5 milioni di donne: tamoxifene, raloxifene e gli inibitori dell’aromatasi andrebbero consigliati alle donne in cui questo fattore di rischio è alto perché sono efficaci anche nella prevenzione, ma è necessario valutare attentamente il profilo individuale e le probabilità di andare incontro a effetti collaterali, in modo tale che questi ultimi non finiscano per annullare i benefici.

Come riportato nelle linee guida dell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM), in Italia nel 2017 l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha inserito il tamoxifene nell'elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale per il trattamento preventivo del carcinoma mammario in donne ad alto rischio (definite tali da specifici calcoli sulla base dei fattori di rischio). Ha, inoltre, inserito il raloxifene nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale per il trattamento preventivo del carcinoma mammario in donne in post-menopausa ad alto rischio. A oggi l’indicazione all’uso degli inibitori dell’aromatasi per la prevenzione del tumore della mammella non è autorizzata in alcun Paese.

 

Come si effettua la terapia ormonale per il tumore del seno?

I medici valutano nei singoli casi, sulla base di diversi fattori, quale approccio seguire, quale farmaco usare o quando eventualmente sostituire un farmaco con un altro, per esempio se si osserva una scarsa risposta da parte del tumore.

Nei tumori con recettori ormonali positivi in fase precoce a tutte le età e in quelli in fase avanzata, la terapia ormonale per il tumore del seno generalmente si assume per bocca una volta al giorno, di solito sotto forma di compresse. È importante attenersi alla dose di farmaco prescritta dall'oncologo e alle istruzioni su quando prenderlo rispetto ai pasti, perché il fatto di avere lo stomaco vuoto o pieno cambia in maniera sostanziale l'assorbimento del medicinale.

 

Nelle donne più giovani che non hanno ancora affrontato la menopausa, sia per alcuni casi di tumore in fase precoce, con terapia associata a inibitori dell’aromatasi o tamoxifene, sia per tumori in fase avanzata, occorre bloccare completamente l'attività delle ovaie (ablazione ovarica), inducendo in pratica la menopausa. Ciò si può fare in diversi modi:

  • con un'asportazione chirurgica delle ovaie;
  • con 3-4 applicazioni di radioterapia alle ovaie;
  • con iniezioni di agonisti dell'LHRH, che bloccando il rilascio di LH (l'ormone luteinizzante prodotto dall'ipofisi che stimola l'attività dell'ovaio) inibiscono la produzione di estrogeni da parte delle ovaie stesse.

 

Quali sono le terapie ormonali usate per il tumore del seno?

Ci sono diversi possibili approcci al trattamento di un tumore al seno sensibile all'azione degli ormoni, anche combinando, a seconda dei casi, i diversi farmaci a disposizione. Ecco i principali:

Tamoxifene

Il tamoxifene è usato da più di trent'anni per contrastare la crescita dei tumori al seno con recettori ormonali sulle loro cellule. Questo farmaco "inganna" i recettori occupando il posto riservato agli ormoni senza però agire come loro. Il tamoxifene impedisce così agli estrogeni di comunicare con le cellule tumorali e di stimolare la proliferazione di queste ultime. In tal modo riduce il rischio che la malattia torni dopo l'intervento e l'eventuale radio e/o chemioterapia, e abbassa di circa il 40 per cento la probabilità che si sviluppi un nuovo tumore nell'altro seno.

Dati recenti hanno dimostrato che l'effetto protettivo di questa cura si protrae a lungo. Per le donne che l'hanno seguita regolarmente per cinque anni, il rischio di morire di tumore al seno nei 15 anni successivi è inferiore di circa un terzo rispetto a quello delle donne che non si sono sottoposte al trattamento. In casi specifici, per ridurre ulteriormente il rischio di recidiva, sulla base dell’esame istologico iniziale e delle condizioni generali della paziente, l’oncologo può decidere di prolungare il trattamento fino a dieci anni.

 

Secondo uno studio italiano coordinato da Andrea De Censi, direttore dell’Oncologia medica dell’Ospedale Galliera di Genova e consulente scientifico dell’Istituto europeo di oncologia di Milano, e realizzato grazie al sostegno di AIRC, bastano 5 milligrammi al giorno di tamoxifene per tre anni per ridurre del 52 per cento il rischio di recidiva nelle donne con una diagnosi di tumore in situ e del 75 per cento il rischio di un nuovo carcinoma all’altra mammella. I risultati dello studio sono stati pubblicati nel 2019 sul Journal of Clinical Oncology e potrebbero portare a un cambiamento nella pratica clinica. Al momento infatti il tamoxifene è utilizzato a un dosaggio molto più alto, di 20 mg/die, che provoca pesanti effetti collaterali, mentre con il dosaggio a 5 mg/die gli effetti collaterali sono ridotti e più tollerabili per la donna.

 

Quando è indicato il tamoxifene?

Il tamoxifene è usato nelle donne che non hanno ancora affrontato la menopausa o in quelle che l'hanno già superata ma che, per varie ragioni, non possono prendere gli inibitori dell’aromatasi.
La condizione per l'uso di questo prodotto, anche nei rari casi in cui il tumore al seno colpisce gli uomini, è comunque sempre la presenza sulla superficie delle cellule tumorali dei recettori ormonali, non necessariamente quelli per gli estrogeni ma anche quelli per il progesterone.

 

Quali precauzioni occorre prendere quando si assume il tamoxifene?

Il farmaco va assunto regolarmente per bocca, una volta al giorno, possibilmente sempre alla stessa ora, avendo cura che non sia a portata dei bambini. Non bisogna mai interromperne l'uso o modificarne la dose di propria iniziativa senza consultare il proprio specialista. Smettere la cura prima del tempo rischia di vanificare l'effetto protettivo del tamoxifene contro un possibile ritorno della malattia.

Al medico va inoltre segnalato l'uso contemporaneo di altri medicinali: alcuni tipi di antidepressivi e di farmaci per lo stomaco o per il cuore possono infatti interferire con l‘azione del tamoxifene, riducendone l'efficacia.

È importante sottolineare inoltre che anche quando i cicli mestruali sono interrotti per effetto della cura ormonale è possibile che si instauri una gravidanza. Poiché il farmaco può essere nocivo per lo sviluppo del feto, è bene accertarsi di non essere incinte prima dell'inizio della cura e concordare con i medici un metodo contraccettivo adatto al proprio caso, da assumere per tutta la durata del trattamento.

 

Quali sono gli effetti collaterali del tamoxifene?

Con il tamoxifene si possono verificare gli effetti tipici da carenza di estrogeni comuni alle altre forme di terapia ormonale.

In particolare:

  • vampate e sudorazioni: colpiscono circa la metà delle donne in trattamento;
  • stanchezza: colpisce circa una donna su quattro durante il trattamento;
  • dolori articolari: sono lamentati da circa una donna su quattro;
  • nausea: circa una donna su cinque può avvertire una leggera nausea all'inizio della cura, facilmente controllabile con i farmaci, che sparisce dopo alcuni giorni o settimane;
  • aumento di peso: è un effetto collaterale che preoccupa molto le donne, ma in realtà si verifica in meno di una donna su dieci e può essere facilmente contrastato controllando l'alimentazione e incrementando l'attività fisica;
  • tumour–flare o flare-up: viene detta così, con un'espressione in inglese, la temporanea esacerbazione della malattia che si può verificare, in meno di un caso su 100, nelle prime fasi della cura. Si può manifestare con un aumento dei dolori alle ossa se la malattia ha localizzazioni a questo livello. In caso di un aumento dei tassi di calcio nel sangue si può avvertire nausea, eventualmente accompagnata da stipsi, o una forte sete: se compaiono questi sintomi è bene segnalarli al medico.

Inibitori dell’aromatasi

Gli inibitori dell’aromatasi impediscono la produzione degli estrogeni bloccando l'azione dell'enzima aromatasi indispensabile per la sintesi degli estrogeni a partire dagli ormoni sessuali maschili (androgeni), i quali vengono prodotti dalla corteccia surrenale anche nelle donne. A questa classe di farmaci appartengono l’anastrozolo, l’exemestane e il letrozolo.

 

Quando sono indicati gli inibitori dell’aromatasi?

Gli inibitori dell’aromatasi sono indicati nelle donne già in menopausa e che quindi non producono più estrogeni dalle ovaie, ma solo nei tessuti periferici, soprattutto quello adiposo. Si usano in genere dopo l'intervento per impedire recidive, ma in alcuni casi sono utilizzati anche prima dell'operazione, per ridurre il volume della massa da asportare, oppure nelle fasi più avanzate della malattia.

La terapia va assunta per 5 anni dopo l’intervento chirurgico oppure in sequenza dopo 2-3 anni di tamoxifene, per un totale di 5 anni di ormonoterapia. In alcuni specifici casi, sulla base dell’esame istologico iniziale, delle condizioni generali della donna e della tolleranza alla terapia, l’oncologo ha la possibilità di consigliare alla propria paziente di proseguire la terapia con inibitori dell’aromatasi oltre il quinto anno.

 

Gli inibitori dell’aromatasi posso essere utilizzati anche dalle donne in premenopausa, ma necessariamente in associazione con un farmaco della classe degli LHRH analoghi agonisti (triptorelina, goserelin, leuprorelina acetato), poiché altrimenti non potrebbero funzionare. In particolare negli ultimi anni, le ricerche hanno evidenziato che, nelle pazienti in premenopausa affette da neoplasia mammaria con recettori ormonali positivi e specifiche caratteristiche, l’assunzione di un inibitore dell’aromatasi in associazione con un LHRH analogo per 5 anni dopo l’intervento chirurgico riduce il rischio di recidiva.

 

Nelle donne con neoplasia mammaria con recettori ormonali positivi in fase avanzata, sulla base di recenti studi clinici, è indicata la terapia con inibitori dell’aromatasi assunti in associazione a nuove molecole chiamate inibitori delle cicline (palbociclib, ribociclib, abemaciclib). Questa associazione permette un potenziamento dell’efficacia della terapia ormonale e di ricorrere più tardi alla chemioterapia, in donne sia in menopausa sia in premenopausa. Quest’ultime devono però rigorosamente assumere anche un LHRH analogo.

 

 

Quali sono gli effetti collaterali degli inibitori dell’aromatasi?

Gli effetti collaterali degli inibitori dell’aromatasi possono essere di entità variabile a seconda della persona e delle diverse fasi del trattamento. Ciò dipende anche dalle condizioni generali di salute, dalla dose di farmaco prescritta e dalla possibile interazione di questa cura con altre sostanze. Anche per questo è molto importante segnalare al proprio medico tutto ciò che si assume al di fuori delle sue prescrizioni, comprese le vitamine, i prodotti da banco o da erboristeria.

Oltre agli effetti da carenza di estrogeni (sintomi menopausali) comuni alle altre forme di terapia ormonale, con questi medicinali, in meno del dieci per cento dei casi, si possono verificare anche:

  • eruzioni cutanee non gravi;
  • lieve nausea;
  • lieve stipsi o diarrea;
  • perdita di appetito;
  • assottigliamento dei capelli,
  • in caso di trattamento prolungato, osteoporosi.

 

Altri disturbi frequenti sono, assumendo anastrazolo:

  • sindrome del tunnel carpale (che si manifesta con perdita della capacità di presa, dolore e parestesie alla mano e al braccio);
  • tosse e disturbi respiratori;
  • aumento del colesterolo nel sangue;
  • secchezza e/o sanguinamenti vaginali;
  • alterazioni della funzione del fegato, di solito lievi e transitorie.

 

Assumendo exemestane:

  • mal di testa;
  • vertigini;
  • gonfiore delle mani e dei piedi.

 

Assumendo letrozolo:

  • mal di testa;
  • vertigini;
  • gonfiore delle mani e dei piedi;
  • tosse e disturbi respiratori;
  • aumento del colesterolo nel sangue (di solito lieve).

Agonisti dell'LHRH

I cosiddetti agonisti dell'LHRH (o GnRH) agiscono a monte rispetto agli altri farmaci ormonali, perché bloccano la produzione dell'ormone luteinizzante (LH), con cui l'ipofisi stimola l'attività delle ovaie e dei testicoli. In particolare, in questo modo le ovaie smettono di produrre ormoni (ablazione o soppressione ovarica).

 

Quando sono indicati gli agonisti dell’LHRH?

Si utilizzano nelle donne in premenopausa con lo scopo di indurre una menopausa temporanea. Nelle donne con neoplasia mammaria con recettori ormonali positivi in fase iniziale di malattia, operate, la terapia può essere associata a un inibitore dell’aromatasi o a tamoxifene per 5 anni. Nelle donne con neoplasia mammaria con recettori ormonali positivi in fase avanzata di malattia, gli agonisti dell’LHRH vengono associati alla terapia endocrina indicata per la paziente.

La somministrazione avviene in genere sotto forma di iniezione sottocutanea o intramuscolare. È importante rispettare le scadenze previste per questo trattamento: uno scarto di pochi giorni non produce gravi conseguenze, ma se si ritarda ulteriormente c'è il rischio che il livello degli ormoni ricominci a salire, e che alcune delle terapie oncologiche concomitanti non funzionino.

Diversamente da quanto avviene con l'ablazione ovarica tramite radiazioni o intervento chirurgico (ooforectomia), l'effetto di questi medicinali può essere reversibile. Nelle donne gli agonisti dell'LHRH interrompono i cicli mestruali che, però, soprattutto nelle più giovani, possono ricominciare nel giro di sei mesi-un anno dalla sospensione della terapia. Una volta sospesa la cura, cioè, l'ovaio torna a funzionare, anche se nelle donne più vicine alla menopausa questo non sempre si verifica. Nonostante ciò non è impossibile che si instauri una gravidanza nel corso del trattamento. Poiché il farmaco può essere pericoloso per il nascituro è bene discutere con il proprio medico quale metodo contraccettivo utilizzare durante la cura, indipendentemente dal fatto che il partner in terapia sia l'uomo o la donna. In quest'ultimo caso occorre anche accertarsi che non ci sia una gravidanza in atto prima di iniziare la cura.

Nelle prime settimane di trattamento questi farmaci possono scatenare (in misura diversa da farmaco a farmaco e in relazione alle caratteristiche individuali) un effetto paradossale di esacerbazione dei sintomi detto flare-up.

 

Ecco alcuni dei più comuni agonisti dell'LHRH usati per il tumore del seno:

 

Goserelin

Il goserelin viene somministrato ogni 28 giorni con iniezioni sottocutanee all'addome, da dove il farmaco viene assorbito gradualmente dall'organismo. Il trattamento blocca l'attività delle ovaie nelle donne trattate per tumore al seno. Provoca gli stessi effetti collaterali delle altre terapie ormonali per il tumore del seno (i disturbi tipici della menopausa) ma ha un effetto più marcato sull'umore, per cui può portare più facilmente alla depressione. Può agire inoltre sulla pressione arteriosa, alzandone o abbassandone i valori.

 

Triptorelina

Viene somministrata per iniezione intramuscolare, di solito nei glutei, o sottocutanea, nell'addome, ogni 4, 12 o 26 settimane. Inibendo la sintesi di estrogeni provoca tutti i sintomi da deprivazione tipici della terapia ormonale.

Un gruppo di ricercatori italiani, guidati da Lucia Del Mastro del Policlinico San Martino – IRCCS per l’oncologia di Genova, ha proposto un nuovo uso della triptorelina, dimostrando che nelle donne con tumore al seno è efficace nel proteggere la fertilità dagli effetti tossici della chemioterapia. Sulla base dei risultati ottenuti sono state elaborate linee guida adottate poi a livello internazionale.

 

Leuprorelina acetato

Viene somministrata per iniezione intramuscolare, di solito nei glutei, o sottocutanea, nell'addome, ogni 4 o 12 settimane. Inibendo la sintesi di estrogeni provoca tutti i sintomi da deprivazione tipici della terapia ormonale.

Altri farmaci

In relazione alle caratteristiche della paziente e alla risposta del tumore al seno alla terapia, i medici possono anche ricorrere ad altri tipi di farmaci di tipo ormonale:

 

Fulvestrant

Può essere utilizzato nelle forme avanzate di tumore al seno con recettori ormonali positivi. Ha una duplice funzione: oltre ad occupare il recettore per gli estrogeni come fa il tamoxifene, lo modifica in modo che gli ormoni non vi si possano più legare. Il farmaco viene somministrato sotto forma di iniezioni intramuscolari e provoca in genere pochi effetti collaterali. Il farmaco può essere utilizzato da solo o in associazione ad altre sostanze, per esempio gli inibitori delle cicline.

 

 

Progestinici

Nelle forme avanzate di tumore al seno comparse dopo la menopausa, con recettori ormonali che tuttavia non rispondono più al tamoxifene né agli inibitori dell’aromatasi, i medici possono ricorrere agli analoghi del progesterone come il medrossiprogesterone acetato o il megestrolo acetato, che si possono assumere per iniezione intramuscolare o per bocca. Questi farmaci agiscono attraverso un duplice meccanismo, uno correlato alla soppressione degli estrogeni e l’altro diretto alla cellula tumorale.

Terapia ormonale per il tumore della prostata

Il tumore prostatico è una neoplasia androgeno-dipendente. In condizioni fisiologiche, la maggior parte degli ormoni androgeni è prodotta dai testicoli in risposta alla stimolazione dell’ormone luteinizzante (LH) – asse ipotalamo-ipofisario-gonadico – e una parte molto minore (10 per cento) viene secreta dalle ghiandole surrenaliche.

Il testosterone prodotto dai testicoli maschili stimola la crescita del tumore della prostata. La terapia ormonale cerca di contrastare questa azione rallentando o bloccando la sintesi del testosterone (deprivazione androgenica).

La maggior parte delle cellule tumorali risponde a questo trattamento (fase ormono-sensibile); tuttavia alcune cellule, in particolare nelle fasi avanzate di malattia, proliferano indipendentemente dalla stimolazione ormonale e non rispondono alla terapia; possono addirittura autoprodurre dei propri androgeni (meccanismo autocrino), o presentare mutazioni del gene per il recettore degli androgeni (AR), tali da proliferare pur in presenza di concentrazioni molto basse di ormoni maschili. La quantità di queste cellule resistenti può aumentare con il passare del tempo, rendendo la malattia "resistente alla castrazione".

 

Il trattamento ormonale è comunque un’arma preziosa per ridurre il rischio che la malattia diagnosticata in fase iniziale si ripresenti dopo un trattamento locale, ma anche per ridurre i sintomi della malattia in stadio avanzato, rallentando o fermando la crescita delle cellule tumorali. In questi casi gli ormoni riescono in genere a controllare il tumore della prostata per diversi anni.

 

Quando si effettua la terapia ormonale per il tumore della prostata?

La terapia ormonale si somministra in aggiunta all'intervento chirurgico e alla radioterapia per evitare che la malattia si ripresenti. Questo rischio è considerato più alto quando:

  • il tumore ha oltrepassato la capsula che riveste la prostata (lo stadio è quindi detto T3);
  • il tumore presenta all'esame istologico un alto punteggio di Gleason;
  • i valori di PSA sono molto elevati al momento della diagnosi.

Il trattamento può iniziare prima, durante o dopo la radioterapia e prosegue per un periodo variabile da sei mesi a tre anni.
Quando la malattia è troppo estesa o diffusa per essere trattata efficacemente con l'intervento chirurgico o la radioterapia, e se sono presenti metastasi ai linfonodi o disseminate, la terapia ormonale rappresenta lo standard di riferimento.

Questo tipo di trattamento viene utilizzato anche qualora si presenti una recidiva della malattia dopo un trattamento loco-regionale chirurgico o radioterapico.

 

Come si fa la terapia ormonale per il tumore della prostata?

La consistente riduzione dei livelli di testosterone in circolo, necessaria per contrastare la crescita delle cellule tumorali, si può ottenere grazie a specifici farmaci oppure con un intervento di orchiectomia bilaterale.

  • Esistono diversi tipi di farmaci che riducono i livelli di testosterone nel sangue: gli agonisti dell'LHRH, gli antagonisti dell'LHRH e gli antiandrogeni. In base alle caratteristiche del paziente e della sua malattia, i medici possono prescrivere uno di questi tipi di farmaco o associarne due, per esempio gli agonisti dell'LHRH con gli antiandrogeni; l’associazione delle due strategie è definita blocco androgenico totale (BAT). La terapia può essere assunta in maniera continua oppure essere interrotta per brevi periodi (terapia intermittente), per ridurre l'impatto degli effetti collaterali e per ritardare i fenomeni di resistenza.
  • L’orchiectomia bilaterale consiste nell’asportazione chirurgica di entrambi i testicoli; lo scroto non rimane totalmente vuoto ma è possibile impiantare due protesi che hanno l’aspetto e la consistenza del testicolo. Questo tipo di intervento permette di ottenere i risultati migliori nei tempi più brevi, ma ovviamente è più difficile da accettare psicologicamente, per cui a oggi la castrazione medica è di gran lunga il percorso terapeutico più utilizzato.

 

Quali sono gli effetti collaterali della terapia ormonale per il tumore della prostata?

Gli effetti collaterali più frequenti dipendono dalla sospensione della produzione e quindi dell’azione degli ormoni maschili.

Quelli comuni, in varia misura, a tutti i tipi di trattamento sono:

  • riduzione del desiderio sessuale;
  • difficoltà erettili;
  • vampate di calore e sudorazioni;
  • riduzione della massa muscolare;
  • osteoporosi;
  • rigonfiamento e dolore mammario.

I disturbi regrediscono in genere dopo alcuni mesi dalla sospensione dell’assunzione dei farmaci.

 

Quali sono le terapie ormonali usate per il tumore della prostata?

Agonisti dell’HRH

I cosiddetti agonisti dell'LHRH (per esempio leuprorelina, triptorelina e goserelin) agiscono a monte rispetto agli altri farmaci ormonali, perché bloccano la produzione dell’ormone luteinizzante (LH) con cui l'ipofisi stimola l'attività delle ovaie e dei testicoli. Sono generalmente somministrati per via intramuscolare o sottocutanea, e nell’uomo inibiscono la produzione di testosterone: si ottiene così la cosiddetta castrazione chimica o farmacologica.

In genere gli agonisti dell’LHRH si somministrano con iniezione sottocutanea o intramuscolare. È importante rispettare le scadenze previste per questo trattamento: uno scarto di pochi giorni non produce gravi conseguenze, ma se si ritarda ulteriormente c'è il rischio che il livello degli ormoni ricominci a salire.

 

Quali sono gli effetti collaterali degli agonisti dell’LHRH?

Nelle prime settimane di trattamento questi farmaci possono scatenare, in misura diversa da farmaco a farmaco e in relazione alle caratteristiche individuali, un effetto paradossale di esacerbazione dei sintomi detto flare-up o tumour flare. Quando la malattia ha localizzazioni ossee, i dolori che provoca a questo livello possono aumentare: per questo la cura negli uomini in trattamento per il tumore della prostata è inizialmente accompagnata (di solito per quattro settimane) dalla somministrazione associata di antiandrogeni che permettono di neutralizzare gli effetti paradossi causati dall’aumento transitorio dei livelli di testosterone.

Antagonisti dell’LHRH

Una valida alternativa al trattamento con analoghi LHRH può essere rappresentata dal trattamento con LHRH antagonisti o antagonisti del GnRH (per esempio il degarelix), specie nei pazienti a maggior rischio di flare-up o nei quali sia necessario ottenere più rapidamente la risposta terapeutica. Gli antagonisti del GnRH inibiscono direttamente l’LHRH a livello ipofisario attraverso un meccanismo di tipo competitivo e bloccano la secrezione di LH e FSH senza determinare effetti agonisti, consentendo pertanto di evitare il fenomeno del flare-up.

Antiandrogeni

Il testosterone stimola la replicazione delle cellule tumorali della prostata legandosi a specifici recettori che si trovano sulla superficie delle cellule stesse. Gli antiandrogeni sono farmaci che bloccano l'interazione tra l'ormone sessuale maschile e questi recettori, inibendo così la crescita del tumore. Provocano meno disturbi di erezione, ma più dolore a livello mammario rispetto agli agonisti dell'LHRH. Possono essere associati ad altri medicinali o nelle prime fasi di trattamento per ridurre l'effetto provocato dal temporaneo aumento della produzione di androgeni (flare-up), oppure per tutta la durata del trattamento per potenziarne l'effetto (blocco androgenico totale).

Tra gli antiandrogeni di vecchia generazione è da menzionare la bicalutamide. Quelli di nuova generazione sono l’abiraterone acetato, l’enzalutamide e l’apalutamide.

 

Bicalutamide
Questo farmaco, che si prende per bocca una sola volta al giorno alla dose di 50 mg/die, è di solito usato in associazione agli agonisti LHRH nel primo mese di trattamento, per ridurre i fenomeni di flare-up sopra menzionati.

 

Abiraterone acetato

È un inibitore selettivo di biosintesi degli androgeni che blocca potentemente il CYP17, un enzima chiave nella sintesi di testosterone da parte di ghiandole surrenali, testicoli e cellule tumorali. Viene utilizzato sempre in combinazione con lo steroide (prednisone o prednisolone) per ridurre gli effetti collaterali quali ipertensione, ritenzione idrica o ipopotassiemia. Si assume in compresse a digiuno, lontano dai pasti.

 

Enzalutamide

È un farmaco con affinità per il recettore degli androgeni di gran lunga superiore rispetto a “vecchi” antiandrogeni; blocca quindi in maniera potente il recettore degli androgeni da cui dipende in gran parte la crescita tumorale. Per spiegarne il meccanismo in maniera semplice, possiamo immaginare il recettore degli androgeni come il “motore” del carcinoma prostatico e il testosterone come la “benzina”: bloccando il “motore” si arresta la crescita del tumore. Enzalutamide si assume per via orale, in capsule molli. Le reazioni avverse più comuni sono astenia, vampate di calore, fratture e ipertensione.

 

Apalutamide

È anch’esso un potente inibitore selettivo del recettore per gli androgeni. Agisce in tre modi diversi: impedisce il legame degli androgeni con il recettore degli androgeni; blocca l’ingresso del recettore degli androgeni nelle cellule tumorali; impedisce che il recettore degli androgeni si leghi con il DNA della cellula tumorale. Si assume in compresse. Tra gli effetti collaterali i più frequenti sono stanchezza, eruzioni cutanee, ipertensione e vampate di calore.

Terapia ormonale per il tumore dell’endometrio

Nel tumore dell’utero, la terapia ormonale si prescrive solo quando la malattia colpisce l’endometrio, il rivestimento interno dell’organo, ma non quando riguarda il collo, cioè nel caso di tumore della cervice uterina. L'endometrio, infatti, come la ghiandola mammaria o l'ovaio, risponde ciclicamente all'azione degli ormoni sessuali femminili, estrogeni e progesterone, che nella donna in età fertile fanno proliferare e maturare ogni mese questo tessuto per predisporlo a un'eventuale gravidanza.

La terapia ormonale per il tumore dell’endometrio non è un’opzione terapeutica efficace in tutte le pazienti, ma solo in casi specifici. Nei tumori al primo stadio, se la donna è ancora in età fertile e desidera avere dei figli, solo in alcuni casi selezionati per preservare la fertilità si utilizza una spirale al progestinico così da evitare o rimandare l’asportazione dell’utero.

Per il tumore in stadio avanzato, invece, si utilizzano antiestrogeni (tamoxifene) o progestinici (megestrolo o medrossiprogesterone); soprattutto questi ultimi rappresentano un’alternativa alla chemioterapia in alcuni tipi di tumore specifici che, per le loro caratteristiche, non sono molto aggressivi.

Terapia ormonale per il tumore dell’ovaio

Gli ormoni sessuali, estrogeni e progestinici, sono implicati anche nello sviluppo del cancro dell’ovaio, stimolando la proliferazione delle cellule cancerose. Per quanto riguarda la terapia ormonale per il tumore dell’ovaio, l’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, consente l’utilizzo degli inibitori dell’aromatasi nel trattamento della recidiva, anche se in letteratura ci sono pochi dati sull’efficacia di questo trattamento. In clinica, dunque, vengono utilizzati, in particolare in caso di recidiva, nella pausa tra un ciclo di chemioterapia e l’altro.

La neoplasia in cui la terapia ormonale ha una documentata efficacia è il tumore sieroso di basso grado, un tipo di carcinoma ovarico che risponde debolmente alla chemioterapia. In questo caso gli inibitori dell’aromatasi sono la prima opzione di cura in caso di recidiva. Fondazione AIRC sta sostenendo diversi studi sull’utilizzo dell’ormonoterapia in diversi tipi di tumore dell’ovaio.

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  • Michela Vuga