Ultimo aggiornamento: 6 marzo 2025
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Mary Mallon, una cuoca di inizio Novecento che contagiò con la febbre tifoide decine di persone, fu dipinta come un “mostro” e dai giornali dell’epoca fu soprannominata Typhoid Mary. La sua storia ha qualcosa da insegnarci.Mary Mallon, una cuoca di inizio Novecento che contagiò con la febbre tifoide decine di persone, fu dipinta come un “mostro” e dai giornali dell’epoca fu soprannominata Typhoid Mary. La sua storia ha qualcosa da insegnarci.
Non sempre le infezioni si manifestano in modo chiaro ed evidente: a volte i loro effetti sono invisibili o comunque lievi o poco riconoscibili. In tali casi la persona infetta è comunque contagiosa, per un periodo più o meno lungo. L’alta quota di pazienti asintomatici è uno dei motivi per cui la diffusione di virus come quello che provoca il Covid-19 è stata e ancora oggi è difficile da contrastare.
Un caso di infezione asintomatica diventato molto celebre all’inizio del Novecento negli Stati Uniti riguardava Mary Mallon, meglio nota come “Typhoid Mary” (in italiano Mary tifoide). Si trattava di una cuoca di origine irlandese che la storia dell’epidemiologia ricorda per aver presumibilmente trasmesso la febbre tifoide a decine di persone a New York e per non aver rispettato le restrizioni cui era stata sottoposta, una volta individuata come contagiosa. La storia di Mary tifoide è però complessa e vale la pena conoscerla.
Ad agosto 1906 Mary Mallon veniva assunta come cuoca dal banchiere Charles Henry Warren. Warren aveva appena affittato una casa per le vacanze a Oyster Bay, nella baia di Long Island, vicino a New York, e la nuova cuoca avrebbe seguito la famiglia in villeggiatura. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre si ammalavano 6 delle 11 persone presenti nella casa, tra famiglia e personale. La diagnosi è di febbre tifoide, una malattia causata da una variante (anche detto sierotipo) di salmonella enterica (Salmonella typhi), un batterio che si diffonde con il cibo e l’acqua contaminati. Inizialmente si era pensato che a determinare il contagio fosse stato il consumo di ostriche crude, un piatto tipico della zona, come suggerisce anche il nome della località. L’epidemia era però rimasta confinata nella casa estiva dei Warren. Nonostante le indagini, non si era inizialmente riusciti a trovare una causa certa del contagio.
Questo aveva messo in allarme George Thompson, il proprietario della casa, che temeva di non riuscire più ad affittarla e che per questo aveva assunto George Soper, un ingegnere sanitario, per provare a risolvere il mistero sui contagi. Mary Mallon, nel frattempo, aveva preso servizio altrove, e quando Soper aveva scoperto che era stata assunta poco prima del contagio a Oyster Bay, si era concentrato su di lei. Secondo l’agenzia a cui si era appoggiata per trovare gli impieghi, le referenze della Mallon erano ottime, ma Soper aveva scoperto che negli anni precedenti erano stati riscontrati casi di febbre tifoide in altre case facoltose dove era stata impiegata. All’inizio del 1907 Soper riusciva finalmente a rintracciarla e sì, anche nella casa dove stava prestando servizio, dopo il suo arrivo due persone si erano ammalate (e una bambina era morta). L’ingegnere aveva quindi parlato con la cuoca, le aveva spiegato cosa aveva scoperto, e le aveva chiesto aiuto per provare la sua teoria, cioè il fatto che avrebbe potuto essere lei all’origine dei contagi.
La cuoca aveva rifiutato sdegnosamente: non aveva mai avuto la febbre tifoide, com’era possibile che fosse lei la causa delle epidemie? Soper provò a persuaderla con l’aiuto di un medico: le chiesero campioni di feci, sangue e urina, ma anche quel tentativo andò a vuoto. L’ingegnere coinvolse allora le autorità sanitarie, con la conseguenza che la Mallon venne arrestata e costretta a fornire i propri campioni. Nelle parole di Soper, l’esame delle feci aveva rivelato che “la cuoca era praticamente una provetta vivente in cui i germi del tifo si moltiplicavano vigorosamente”.
Come li trasmetteva? La salmonella è espulsa attraverso le feci della persona infetta e, se questa non si lava accuratamente le mani dopo essere andata in bagno, i batteri trasferiti sulla loro superficie restano lì. Da qui possono passare al cibo, ma a neutralizzare il pericolo è sufficiente la cottura (a patto che poi il cibo cotto non sia nuovamente manipolato da mani contaminate). Una delle specialità di Mallon era però il gelato alla pesca. Si era così pensato che fosse proprio attraverso questo piatto, o altre pietanze non cotte, o contaminate dopo la cottura, che fosse avvenuto il contagio.
All’epoca non esistevano ancora gli antibiotici, quindi, così come non era possibile curare le vittime, non c’era modo di eradicare il batterio dal corpo della cuoca. Si era così deciso che la Mallon dovesse rimanere in quarantena forzata, presso il Riverside Hospital sull’isola di North Brother, sempre vicino a New York. Qui viveva in isolamento in un bungalow sul terreno dell’ospedale e la sola compagnia che aveva era quella di un fox terrier.
L’isolamento a cui fu costretta Mary Mallon ricordava un po’ una prigione in cui sembrava essere stata confinata dopo un processo sommario. Lì sarebbe anche stata studiata un po’ come un animale di laboratorio. In quel periodo, sui giornali iniziò anche a comparire il soprannome Typhoid Mary. Ma nemmeno all’epoca tutti gli esperti erano concordi che la soluzione individuata fosse la più efficace e c’era chi simpatizzava con la sua condizione. La sfortunata giunse persino a denunciare il Dipartimento della salute, visto che stando al referto di alcune analisi condotte presso un laboratorio privato, sembrava essersi liberata dal batterio. A questo proposito c’è un piccolo “giallo”: chi aveva aiutato finanziariamente Mary in questa causa? Un’ipotesi è che si sia trattato del magnate dell’editoria William Randolph Hearst, che – ironicamente – era anche il proprietario del giornale la cui redazione aveva coniato il nomignolo.
La causa fu rigettata, ma qualche tempo dopo, nel 1910 (dopo quasi 3 anni di isolamento), il Dipartimento della salute di New York concesse a Mary Mallon di tornare in libertà. Doveva però rispettare una condizione importante: non avrebbe mai più potuto cucinare, se non per sé stessa. Ciò nonostante, dopo pochi anni Mallon ricominciò a svolgere il lavoro che sapeva fare meglio – cucinare, appunto – e di fatto le epidemie ricominciarono. Questa volta però sapeva di essere controllata, e così si servì di nomi falsi e cambiò spesso datore di lavoro. Nel 1915 fu nuovamente catturata e rispedita in via definitiva sull’isola. Morì di polmonite nel 1938 a 69 anni, 26 dei quali (considerando anche la prima quarantena) passati in isolamento.
Cosa avrebbe dunque reso Mary Mallon un “mostro” da tabloid, degno di un nomignolo ripugnante come Typhoid Mary? Il fatto che sapesse di essere contagiosa e che, ciò nonostante, avesse continuato a lavorare e a disseminare la sua malattia come se niente fosse. Secondo questa versione dei fatti, sarebbe dunque stata una sorta di untrice di inizio Novecento. Al di là degli aspetti tragici e insieme pittoreschi, la storia di Mary Mallon può essere un monito per ricordare i comportamenti più protettivi da adottare, per sé e per gli altri, in caso di infezione.
Tornando ai suoi tempi, occorre dire che Mary Mallon era di fatto stata accusata di essere una portatrice sana, un’asintomatica, quando persino tra i medici questi erano concetti nuovi. Almeno per quanto riguarda la febbre tifoide, questo era infatti il primo caso documentato negli Stati Uniti. Non deve stupire che lei e altri credessero, come la grande maggioranza della popolazione, che una persona sana (e lei ne aveva l’aspetto) dovesse essere anche innocua.
All’inizio del Novecento, inoltre, c’erano un concetto e un livello di igiene molto diversi da quelli dei giorni nostri. La teoria dei germi era stata divulgata da poco, così come l’importanza del lavaggio accurato delle mani in ambito ospedaliero. Tra i cittadini l’importanza di queste scoperte, che oggi consideriamo basilari, non era certo molto diffusa. Peraltro Mary Mallon non era certamente la cuoca “più sporca del mondo”, dato che la sua categoria non era ancora stata educata al fatto che mani apparentemente pulite possono in realtà essere un pericolo mortale.
Come si può però giustificare il suo comportamento dopo il rilascio? Aveva promesso di non avvicinarsi più al cibo altrui e invece lo aveva fatto, tentando poi di non farsi catturare. Al momento del rilascio, dopo 3 anni di separazione dal mondo, Mallon aveva 41 anni e doveva guadagnarsi da vivere da sola, come aveva sempre fatto da quando era arrivata dall’Irlanda a 15 anni. Le trovarono lavoro in una lavanderia, ma guadagnava molto meno di quando faceva la cuoca, una professione nella quale era esperta e che le dava soddisfazione, oltre a permetterle di vivere nelle belle case dei suoi ricchi datori di lavoro. Il lavoro in lavanderia, a causa dell’interdizione all’attività di cuoca, l’aveva costretta ad abbandonare i pochi agi che era riuscita a conquistarsi dal basso della propria classe sociale. Questo è il motivo principale per cui, dopo qualche anno, aveva violato l’interdizione.
Raramente si ricorda che Mary Mallon non era l’unica portatrice sana di febbre tifoide a New York, né la più contagiosa. Dopo di lei sono stati individuati almeno altri 400 portatori sani di questa malattia, tra i quali persino il proprietario di un panificio che, come la Mallon, non aveva rispettato le restrizioni. Nessuno di loro fu però sottoposto alle misure draconiane imposte alla cuoca, che era povera, poco istruita, emigrata e per di più donna. Le vittime dei contagi che lei provocava erano, invece, tutte benestanti (eccetto il personale di servizio). Anche questo può spiegare perché proprio lei fosse stata identificata e presa di mira.
Mary Mallon ha certamente fatto delle scelte incaute, e le sue azioni hanno portato alla morte di almeno 3 persone, ma è stata giudicata molto più duramente di quanto probabilmente meritasse. Forse, come suggerisce la storica della medicina Judith Walzer Leavitt nel libro Typhoid Mary: Captive to the Public’s Health (1996), le cose sarebbero potute andare diversamente se le autorità sanitarie avessero comunicato meglio con lei, mostrando comprensione per la sua condizione, anziché usare il suo caso per rivendicare quanto la salute pubblica fosse da considerarsi più importante del rispetto dei diritti individuali.
Nella storia delle epidemie ci sono alcune cose che non cambiano mai e una è la ricerca dei capri espiatori. Chi è che sta diffondendo il contagio nella mia città o nel mio Paese? Si tende a cercare dei responsabili, ben riconoscibili, su cui concentrare la colpa e convogliare la rabbia collettiva. In questo, ovviamente, non c’è neutralità: ci sono già idee preconcette di chi siano i “colpevoli”, di che cosa facciano e di come dovrebbero essere puniti.
Nulla di tutto questo aiuta però a fermare o rallentare il contagio, le cui cause sono in genere assai più numerose e sistemiche. Come scriveva Leavitt nel “lontano” 2004, la storia di Mary Mallon in questo senso ci può effettivamente insegnare qualcosa sull’oggi e prepararci al domani. “Il conflitto tra le priorità concorrenti delle libertà civili e della salute pubblica non scomparirà, ma possiamo lavorare per sviluppare linee guida per la salute pubblica. Le persone che possono mettere in pericolo la salute degli altri saranno più disponibili a cooperare con le autorità che cercano di arginare la diffusione di una malattia se la loro sicurezza economica verrà garantita e se saranno convinte di essere trattate giustamente. Politiche eque, applicate con la conoscenza della storia, dovrebbero produrre pochissimi prigionieri per la salute pubblica”.
Autore originale: Stefano Dalla Casa
Revisione di Denise Cerrone in data 06/03/2025
Stefano Dalla Casa