L’insostenibile lentezza del nostro cervello e come elaboriamo le informazioni

Ultimo aggiornamento: 9 ottobre 2025

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Rispetto agli strumenti elettronici, il cervello umano processa le informazioni a una velocità sorprendentemente lenta. Potrebbe essere un vantaggio evolutivo?

Dieci bit al secondo. È un numero ridicolmente piccolo. A quanto pare, è questa la velocità a cui agisce il nostro cervello. È la cadenza con cui un maestro di scacchi pondera una mossa, un dattilografo esperto trascrive un manoscritto, o un campione di memoria fissa nella mente l’ordine di un mazzo di carte. È il ritmo del nostro essere pensante.

Ora, mettete questo numero accanto a un altro: un miliardo. Un miliardo di bit al secondo. Questo è il torrente di dati a cui i nostri sensi, in particolare gli occhi, sono esposti nell’ambiente e che in parte riversano ogni istante nel cervello. È una cascata di fotoni, un’inondazione di colori, forme e movimenti.

Dieci contro un miliardo. È come paragonare la velocità di una lumaca a quella di un jet. C’è un divario di 8 ordini di grandezza, un rapporto di cento milioni a uno. I neuroscienziati Jieyu Zheng e Markus Meister, del California Institute of Technology, lo chiamano il “sifting number”, il numero del vaglio, perché rappresenta la quantità cosmica di informazione che il nostro cervello scarta per ogni singolo frammento che invece trattiene. Ne hanno scritto in un recente articolo sulla rivista Neuron, dal titolo “The unbearable slowness of being?” (“L’insostenibile lentezza dell’essere?”), che richiama il famoso libro di Milan Kundera. Secondo gli autori si tratta forse del “più grande numero inspiegato nelle scienze che studiano il cervello”.

Non è una speculazione, e non è nemmeno una teoria. Zheng e Meister hanno esaminato quasi un secolo di misurazioni delle prestazioni cognitive umane: dagli esperimenti classici di psicologia, alle gare di memoria (come ricordare lunghe sequenze di zeri e uno o l’ordine di un mazzo di carte), fino alle competizioni di videogiochi e cubi di Rubik. Tutti questi dati, tradotti in termini informatici, raccontano la stessa storia: la velocità con cui trasformiamo stimoli in azioni, percezioni in decisioni, cade sempre nello stesso intervallo, di circa 5-50 bit al secondo. È da qui che nasce la cifra approssimativa dei 10 bit al secondo, il ritmo a cui pensiamo e facciamo ogni cosa.

Vivere a 10 bit al secondo: un’eredità evolutiva?

Perché la macchina più complessa dell’universo conosciuto, capace di comporre sinfonie e decifrare il genoma, è così lenta?

La risposta, o almeno un pezzo di essa, potrebbe nascondersi in un passato evolutivo molto lontano. Immaginate una creatura primordiale, una sorta di medusa ancestrale che fluttua nell’oceano del Precambriano, circa 4,6 miliardi di anni fa. Il suo sistema nervoso, privo di cervello, non ha evoluto funzioni utili a contemplare l’infinito. Uno dei primi problemi che queste creature hanno dovuto risolvere per rimanere in vita e riprodursi era ben più urgente: muoversi. Navigare verso una fonte di cibo o allontanarsi da un’ombra che preannuncia un predatore. Non c’è né il tempo né il bisogno di elaborare in parallelo 10 possibili rotte di fuga, perché ce n’è solo una che conta: quella che ti porta a domani.

Centinaia di milioni di anni dopo, questo imperativo evolutivo, cioè “un compito alla volta”, sembra essere rimasto impresso nella nostra architettura cognitiva. Con ogni probabilità il grande maestro di scacchi non valuta 10 mosse simultaneamente, bensì le esamina in sequenza, una dopo l’altra. In una stanza affollata, non possiamo seguire tutte le conversazioni in parallelo: il nostro cervello, con quello che viene chiamato l’“effetto cocktail party”, ne seleziona una e relega le altre a un rumore di fondo insignificante. Questa divisione ha portato Zheng e Meister a proporre un modello a due cervelli: un “cervello esterno” e un “cervello interno”.

Il cervello esterno è quello dei sensi e dei muscoli: veloce, ad alta larghezza di banda, un’orchestra di milioni di neuroni che lavorano in parallelo. La retina, da sola, è un supercomputer che comprime gigabit di dati visivi in un segnale più gestibile (ma comunque enorme) da 100 megabit al secondo per il nervo ottico.

Il cervello interno, invece, è il direttore d’orchestra. È la sede della cognizione, dei processi decisionali, della memoria e di altre funzioni di alto livello. È lento e seriale. È il luogo dove il torrente di dati del cervello esterno viene incanalato in un rivolo di appena 10 bit al secondo. Per usare l’efficace analogia degli autori, è come cercare di bere dalla diga di Hoover attraverso una cannuccia.

Troppi neuroni per così pochi bit?

Le nostre lontane origini evolutive, però, non spiegano tutto. Il nostro “cervello interno” contiene miliardi di neuroni: ma a cosa servono, se la nostra mente è così “limitata”? Alcune ipotesi parlano di inefficienza intrinseca: i neuroni sarebbero macchine biologiche turbolente, ben lontane dalla precisione dei transistor, e perciò ne servirebbero tantissimi per garantire un segnale affidabile. Altri evocano la ridondanza: grandi popolazioni di neuroni “di riserva” pronte a sostituire quelli eventualmente danneggiati. Ma nessuna di queste spiegazioni sembra reggere. Diversi esperimenti mostrano che un singolo neurone può trasmettere diversi bit per ogni impulso, con una precisione notevole. Inoltre, sappiamo che può bastare anche un modesto ictus, che distrugga una porzione circoscritta di cellule, per cancellare una parte importante per esempio del campo visivo.

Secondo gli autori tutti quei neuroni potrebbero servirci per “saltare” da un compito all’altro. Un’azione che ci sembra banale, come preparare una tazza di tè, si scompone in almeno 45 micro-compiti distinti: osservare il bollitore, afferrarlo, spostarsi verso il lavello togliendo il coperchio, aprire il rubinetto, controllare il livello dell’acqua, e così via. Allo stesso modo, attività quotidiane come guidare, camminare o leggere si basano su sequenze di decine di sotto-compiti, in gran parte svolti con automatismi, senza quasi che ci facciamo caso. Secondo Zheng e Meister, i nostri numerosissimi neuroni potrebbero servire proprio a questo: a gestire questa rapida alternanza, passando in frazioni di secondo da un micro-compito all’altro, ciascuno dei quali resta però vincolato a una capacità di elaborazione di circa 10 bit al secondo.

Questa lentezza ha conseguenze profonde e spesso controintuitive. Prendete la memoria. Pensiamo che i nostri cervelli siano vaste biblioteche capaci di immagazzinare quantità quasi infinite di informazioni. Ma se si fa il calcolo, basandosi su un’acquisizione di 10 bit al secondo per tutta la vita, la quantità totale di conoscenza che una persona può accumulare in circa 100 anni (per le persone più longeve) è sorprendentemente modesta: meno di 4 gigabyte. Tutta la nostra vita, i nostri amori, le nostre conoscenze, le nostre esperienze, potrebbero essere contenuti in una piccola chiavetta USB.

L’illusione di Musk

Questo porta a quella che i ricercatori chiamano l’illusione di Musk. L’imprenditore Elon Musk, frustrato dalla “bassa larghezza di banda” della comunicazione umana, sogna un’interfaccia cervello-computer che ci permetta di comunicare alla velocità delle macchine, svincolandosi dalla lentezza intrinseca del parlare, dello scrivere e del pensare. Ma l’illusione è proprio questa: la sensazione che i nostri pensieri siano molto più “veloci” di quanto possiamo esprimere. Anche con una connessione neurale diretta, predicono Zheng e Meister, Musk non comunicherebbe più velocemente di quanto farebbe usando un telefono.

 

Le implicazioni di questa lentezza investono anche lo sviluppo di altre possibili neuroprotesi. Gli approcci con cui si è tentato di ripristinare, per esempio, la vista in pazienti ciechi non hanno avuto successo, nel tentativo di trasferire informazioni visive “grezze” a velocità di gigabit al secondo nel sistema periferico, scavalcando i fotorecettori danneggiati. Dopo decenni di sforzi e miliardi di dollari, i pazienti sono rimasti legalmente ciechi. Insomma, senza prima capire come è compressa e vagliata l’informazione, questo tipo di approccio non può funzionare.

 

Secondo gli autori le neuroprotesi oggi più promettenti sono quelle che svolgono le parti salienti dell’elaborazione visiva, come stabilire l’identità e la posizione degli oggetti, e comunicare tali dati ai pazienti attraverso un linguaggio naturale (un computer che narra la scena in tempo reale). Questi dispositivi a realtà aumentata, capaci di interpretare l’ambiente e “tradurlo” per gli altri sensi del paziente, sono già usati nella pratica e promettono di diventare sempre più potenti.

Alla fine, Zheng e Meister gettano davvero un sasso nello stagno: dobbiamo fare i conti con il limite al ritmo di informazione che la mente umana riesce a trasformare in pensiero e azione. È plausibile che abbiamo ereditato questo “collo di bottiglia” dai primi animali dotati di un sistema nervoso più semplice. Per capirci di più dovremmo però cominciare anche a studiare come tale limite si manifesta nelle altre specie. Allo stesso tempo, resta da capire quali meccanismi permettono al “cervello interno” di dialogare con quello “esterno”. Per questo servono nuovi esperimenti, per osservare il cervello mentre affronta i compiti complessi della vita reale, e non solo quelli a volte un po’ astratti, tipici dei laboratori. Così, forse, potremo scoprire come riesca a trasformare la piena smisurata dei sensi in quel filo sottile di informazione che determina percezioni, pensieri e azioni.

  • Stefano Dalla Casa

    Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.