Ultimo aggiornamento: 17 gennaio 2022
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In questo articolo risponderemo alle domande:
Quando si valuta l’efficacia di un farmaco antitumorale nell’ambito di una sperimentazione clinica si possono misurare aspetti diversi, rispetto alla valutazione della risposta effettiva di un paziente allo stesso trattamento, una volta che il farmaco è stato approvato ed è usato comunemente in clinica. Lo sanno bene i medici, che quotidianamente hanno a che fare con pazienti sottoposti a terapie anticancro e con il problema di valutare se tale paziente sta rispondendo più o meno bene al trattamento in corso.
Determinare la risposta al trattamento è fondamentale per capire se la via scelta è quella giusta oppure se per contrastare la malattia sia il caso di cambiare strategia.
Vediamo insieme alcuni dei criteri su cui ci si basa per determinare la risposta al trattamento.
Aumentare la durata della sopravvivenza di un paziente è quasi sempre l’obiettivo finale più importante di una terapia e un indicatore quantitativo utile a definire se un trattamento funziona o meno. Questo parametro, che viene indicato come sopravvivenza complessiva o globale (dall’inglese overall survival), non è però semplice da utilizzare nella pratica clinica quotidiana. Se un trattamento allunga la vita di chi lo assume, esso sta senza dubbio funzionando, ma in molti casi bisogna aspettare anni (a volte addirittura la morte del paziente) per arrivare a stabilirlo. Medico e paziente vogliono invece sapere subito (o quasi) se la cura funziona, anche per evitare gli inevitabili effetti collaterali se il trattamento non è efficace.
Anche per questo, nelle sperimentazioni cliniche si utilizzano spesso i cosiddetti “endpoint surrogati”: si tratta di obiettivi secondari che danno un’idea dell’efficacia della cura nel caso in cui il traguardo clinicamente più importante (la sopravvivenza complessiva) non può essere valutato se non su un periodo molto lungo. Molto utilizzata è per esempio la cosiddetta “sopravvivenza libera da progressione”, ovvero il tempo che trascorre dalla cura all'eventuale ripresa della malattia. Utili, e spesso impiegati per dare un’idea della risposta al trattamento, sono la sopravvivenza a 5 o a 10 anni.
Fin qui abbiamo parlato soprattutto di efficacia del trattamento, ma ai medici servono anche strumenti per capire se la terapia sta funzionando, quasi in tempo reale.
Ricercatori in tutto il mondo hanno lavorato a questo obiettivo e, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, introducendo progressivamente alcune regole oggi accettate a livello internazionale per misurare la risposta ai trattamenti. Nel 1981 sono stati pubblicati i criteri dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), adottati a livello globale e rimasti lo strumento principale per la valutazione della risposta al trattamento per almeno due decenni, quando furono per la prima volta introdotti i criteri RECIST (dall’inglese, Response evaluation criteria in solid tumours), che hanno soppiantato i primi e sono ancora oggi utilizzati in tutto il mondo. Il RECIST Working Group, il gruppo di esperti che lavora alla definizione a all’aggiornamento di questi criteri, include rappresentanti della European Organization for Research and Treatment of Cancer (EORTC), del National Cancer Institute (NCI) degli Stati Uniti e del Canadian Cancer Trials Group (CCTG), oltre a diverse aziende farmaceutiche.
Senza entrare troppo nel dettaglio, questi criteri si basano in particolare sulla valutazione della cosiddetta “risposta oggettiva”, ovvero la riduzione della massa (o delle masse) tumorale, e indicano anche con quali strumenti valutare tali riduzioni (tomografia computerizzata, risonanza magnetica e altro). In base a specifici criteri di misura si parla, quindi, di risposta completa o risposta parziale, e su queste risposte si possono basare le successive scelte terapeutiche.
Di fronte al miglioramento delle tecnologie e all’introduzione delle terapie a bersaglio molecolare e dell'immunoterapia, gli esperti si sono chiesti se non fosse opportuno modificare anche i criteri di valutazione della risposta. Per quanto riguarda i criteri RECIST, nel 2009 è stata proposta una nuova versione (RECIST 1.1) che, pur continuando a tenere conto dei cambiamenti nella forma e nella dimensione del tumore (modifiche morfologiche), ha introdotto anche la valutazione dei linfonodi invasi dal tumore e ha ridefinito i criteri per la progressione della malattia. La revisione del 2009 ha introdotto anche alcune riflessioni importanti sui cambiamenti funzionali dei tumori, ovvero sulla loro attività, misurabile per esempio con tecniche come la tomografia a emissione di positroni (PET). Alcune cure più moderne, infatti, incidono poco sulla massa del tumore ma agiscono a livello molecolare sulle cellule, per esempio rendendole meno capaci di dare origine a metastasi o favorendo la risposta del sistema immunitario contro la malattia.
A dimostrazione dell’evoluzione continua dell’oncologia moderna, nel 2017 sono state pubblicate sulla rivista Lancet Oncology le linee guida per i criteri di risposta da utilizzare negli studi che valutano le immunoterapie (iRECIST). “Queste linee guida prendono in considerazione le risposte peculiari che si osservano con questo tipo di trattamento” spiegano gli autori. In effetti, solo per citare un esempio, con l’immunoterapia può succedere di assistere a una progressione (che in realtà è una falsa progressione) prima di vedere la risposta al trattamento.
E le terapie a bersaglio molecolare? Anche di queste si sono occupati gli esperti del RECIST Working Group, che nel 2019 hanno pubblicato un articolo sull’utilizzo dei criteri RECIST nella valutazione della risposta a queste terapie. L’analisi ha dimostrato che i criteri RECIST 1.1 sono validi anche nel caso delle terapie a bersaglio molecolare, e valgono per diversi tipi di tumore e diverse categorie di farmaci.
I criteri RECIST si riferiscono espressamente alla valutazione della risposta nei tumori solidi, nei quali possono essere più facilmente misurate le lesioni tumorali attraverso esami quali la TC. I tumori del sangue (leucemie, mielomi, linfomi) si comportano in maniera diversa e uno dei parametri principali per determinare la risposta a un trattamento è la cosiddetta “malattia residua minima”. L’espressione indica un piccolo numero di cellule cancerose ancora presenti nell’organismo dopo il trattamento che, seppur poche, mettono il paziente a rischio di un ritorno di malattia.
Valutare la presenza di queste cellule residue dopo il trattamento aiuta i medici a determinare il successo della risposta, che può anche essere completa, nel caso non ci siano più cellule tumorali rilevabili.
Anche nel caso dei tumori del sangue, il progresso nelle conoscenze sulle patologie e nelle tecniche di analisi molecolare ha portato negli anni a identificare nuove modalità per definire e seguire nel tempo la risposta al trattamento. Nel caso della leucemia mieloide cronica, per esempio, nella quale è spesso presente una specifica alterazione a livello cromosomico (il cromosoma Philadelphia), la risposta si valuta a livello molecolare andando a misurare la presenza di proteine che sono un indicatore indiretto della presenza dell’alterazione cromosomica e, di conseguenza, delle cellule tumorali.
Agenzia Zoe