Gli anticorpi monoclonali si usano già da tempo in oncologia

Gli anticorpi monoclonali sono utilizzati da qualche decina d’anni per trattare diversi tipi di tumore. La ricerca sugli anticorpi monoclonali è in continua evoluzione e potrebbe portare l’oncologia verso terapie sempre più precise e mirate.

Ultimo aggiornamento: 26 settembre 2025

Tempo di lettura: 6 minuti

In questo articolo risponderemo alle domande:

  • Cosa sono gli anticorpi monoclonali?
  • Come si producono?
  • Quali anticorpi monoclonali sono già in uso nella pratica clinica?
  • Perché si utilizzano molto anche in laboratorio?

La tecnica per produrre gli anticorpi monoclonali è stata sviluppata nel 1975 da Georges Köhler e César Milstein in un laboratorio del Medical Research Council (MRC) nel Regno Unito. Per la loro scoperta nel 1984 hanno ricevuto il premio Nobel per la fisiologia o la medicina. Da allora sono ampiamente utilizzati, nelle loro numerose varianti, in studi di laboratorio e quali strumenti diagnostici e terapeutici.

Durante la pandemia di Covid-19 si è parlato molto di anticorpi monoclonali, quali possibili trattamenti contro le infezioni da SARS-CoV-2. Diversi centri di ricerca e aziende farmaceutiche hanno sperimentato e prodotto composti basati su questa tecnologia. Tuttavia, l’efficacia degli anticorpi monoclonali contro le malattie infettive è ancora limitata, soprattutto a causa della breve finestra temporale in cui possono esercitare la propria azione dopo l’infezione. Per diverse malattie autoimmuni e oncologiche, invece, gli anticorpi monoclonali sono trattamenti consolidati e ampiamente utilizzati in clinica.

Cos’è un anticorpo

Gli anticorpi o immunoglobuline (Ig) sono proteine prodotte dai linfociti B, un tipo di globuli bianchi. La loro funzione è riconoscere e legare molecole specifiche chiamate antigeni. Gli anticorpi sono spesso rappresentati da una lettera Y, una forma che rispecchia una struttura composita. Ogni anticorpo è assemblato a partire da 4 catene di amminoacidi, 2 lunghe (o pesanti) e 2 corte (leggere), unite da particolari legami chimici. Negli esseri umani esistono 5 classi di anticorpi (IgA, IgD, IgE, IgG e IgM) che hanno funzioni diverse e forme variegate a partire dalla forma di base a Y. Una caratteristica peculiare degli anticorpi è la specificità: grazie alle 2 estremità superiori della Y, che cambiano da anticorpo ad anticorpo, possono legarsi in modo specifico a piccole porzioni di altre molecole (di frequente proteine), che sono appunto gli antigeni. Una persona può produrre fino a un miliardo di anticorpi diversi, ognuno con una specificità diversa da quella di tutti gli altri. Il legame tra antigene e anticorpo dà il via ai processi molecolari e cellulari di difesa dell’organismo.

Uno, cento, mille cloni

In risposta a un microbo invasore, i nostri linfociti B producono moltissimi anticorpi, ognuno dei quali riconosce una porzione dell’agente infettivo. Ciascuna porzione costituisce uno specifico antigene. Se immaginiamo un microbo a forma di carro armato, ci saranno anticorpi specifici per la punta del cannone, altri per il portellone, altri ancora per la torretta o per un preciso punto dei cingoli, e così via.

Ogni linfocita B che produce uno di questi anticorpi si moltiplicherà generando moltissimi linfociti B identici: ciascuna di queste popolazioni di linfociti B rappresenta un clone. Tutti i membri di un clone producono un solo tipo di anticorpo, per esempio soltanto quello che si lega alla punta del cannone o alla torretta. La risposta anticorpale del sistema immunitario è detta policlonale perché vengono, appunto, prodotti contemporaneamente tanti tipi di anticorpi. Non tutti gli anticorpi però legano l’antigene con la stessa potenza e non tutti hanno la stessa capacità di neutralizzare il microbo invasore, portatore di quell’antigene. Quando si utilizza un anticorpo in clinica o in ricerca, ormai si lavora quasi sempre con i cosiddetti anticorpi monoclonali, prodotti in laboratorio a partire da un solo clone e quindi tutti uguali. Il clone viene selezionato attentamente per garantire che sia specifico (riconosca solo l’antigene di interesse), abbia un’elevata affinità (si leghi fortemente all’antigene) e attivi le risposte desiderate.

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Una tecnica rivoluzionaria

Se vogliamo produrre un anticorpo monoclonale possiamo inoculare l’antigene in un animale di laboratorio e recuperare dal suo siero gli anticorpi specifici contro tale antigene. Con questo sistema, però, otteniamo un siero policlonale, ovvero fatto di molti anticorpi non uguali tra loro. Inoltre, abbiamo a disposizione il relativo siero solo per la durata di vita dell’animale. Isolando invece le cellule dell’animale che producono gli anticorpi, e crescendole in coltura, possiamo ottenere singoli cloni e selezionare il clone che produce l’anticorpo con le caratteristiche che più ci interessano, per l’affinità con l’antigene, per la specificità, per l’attività o per tutti e tre gli aspetti. Tuttavia, siamo ancora limitati dal fatto che i linfociti B non sopravvivono in eterno.

Georges Köhler e César Milstein hanno trovato il modo di “rendere immortali” i linfociti B che producono un anticorpo di interesse. La tecnica prevedeva di fondere tali linfociti con particolari linee cellulari di mieloma multiplo, in grado di moltiplicarsi indefinitamente in coltura. Avevano così ottenuto cellule, chiamate ibridomi, che erano una fonte potenzialmente inesauribile di uno specifico anticorpo: una proteina di cui si conoscono la specificità, l’affinità e l’attività.

Più in dettaglio, per produrre un anticorpo monoclonale si introduce l’antigene di interesse in un roditore (un topo o un ratto). Quando è trascorso un numero di giorni sufficienti perché avvenga la risposta immunitaria, si isola la milza dell’animale. Le cellule della milza vengono quindi fuse con cellule immortalizzate in coltura e poi fatte crescere in tanti compartimenti separati, per ottenere i singoli cloni. Se si intende utilizzare l’anticorpo monoclonale ottenuto come farmaco, è necessario procedere con sperimentazioni precliniche e cliniche, come avviene per tutti i farmaci. L’anticorpo prodotto da ciascun clone viene dunque sperimentato prima in animali da laboratorio e poi, se i risultati sono positivi, negli esseri umani. Una volta identificato un clone che possiede le caratteristiche desiderate, lo si fa crescere in gran quantità in coltura, e successivamente si può quindi purificare l’anticorpo monoclonale secreto dalle cellule nel terreno di coltura. Non stupisce che una tecnica così geniale, dall’immenso impatto clinico e di ricerca, abbia suscitato l’interesse della Fondazione Nobel.

Gli usi clinici

Nel 1986 è stato approvato dalla Food and Drug Administration americana il primo anticorpo monoclonale usato come farmaco, chiamato OKT3. Esso si lega a un recettore espresso dai linfociti T (CD3) e, bloccando la risposta di queste cellule immunitarie, provoca uno stato di immunodepressione che impedisce il rigetto degli organi trapiantati. Ma il primo anticorpo monoclonale entrato in clinica con grande successo è l’infliximab, impiegato per il trattamento dell’artrite reumatoide, una malattia invalidante per cui prima non esistevano opzioni terapeutiche. In particolare, l’infliximab riconosce e neutralizza la citochina infiammatoria TNF-alfa, e per questo è conosciuto come anti-TNF-alfa. Per convenzione gli anticorpi monoclonali sono abbreviati con “mAb” (dall’inglese monoclonal Antibodies) e a quelli usati come farmaci viene dato un nome che termina con il suffisso “mab”.

Nel tempo sono stati prodotti e approvati molti altri anticorpi e la tecnologia utilizzata per produrli si è notevolmente evoluta. I primi anticorpi monoclonali erano infatti tutti realizzati a partire da anticorpi di topi o ratti, il che poteva provocare nell’organismo umano una reazione da parte del sistema immunitario dei pazienti, che li riconosceva come sostanze estranee. Utilizzando tecniche di biologia molecolare e ingegneria genetica, oggi è possibile produrre anticorpi monoclonali utilizzando solo materiale di origine umana ed evitare così del tutto il problema. In generale, gli anticorpi monoclonali richiedono un grosso lavoro di messa a punto, basti pensare che bisogna sperimentare centinaia o migliaia di cloni prima di trovare “quello giusto”, e questo si riflette sul loro costo finale. I cosiddetti farmaci biologici, la classe a cui appartengono gli anticorpi monoclonali usati in terapia, sono in genere assai più costosi dei farmaci che si possono sintetizzare chimicamente. Offrono però diversi vantaggi: sono in genere più specifici e selettivi rispetto alla chemioterapia e ad altri trattamenti sistemici, danno effetti collaterali diversi, spesso più contenuti, e hanno aperto opzioni di cura per malattie prima incurabili.

Gli anticorpi monoclonali per la diagnosi e la prognosi

La scelta dei trattamenti più adatti a una malattia dipende da una diagnosi precisa e accurata. Quando c’è un sospetto di tumore si procede quasi sempre a una biopsia e a un esame istologico, nel caso dei tumori solidi, o all’esame di uno striscio di sangue su un vetrino, nel caso dei tumori ematologici. Alle tradizionali tecniche istologiche e citologiche, di analisi della forma delle cellule al microscopio, negli ultimi quarant’anni circa si sono sempre più aggiunti metodi di immunoistochimica e di citofluorimetria. Si tratta di tecniche basate sull’utilizzo di anticorpi monoclonali, essenziali per la caratterizzazione dei tumori solidi ed ematologici. In pratica, le analisi con tali anticorpi permettono di capire se nei tessuti prelevati sono presenti specifiche molecole, da essi riconosciute in modo accurato. Le informazioni così raccolte sono molto importanti per precisare la diagnosi e la prognosi, per classificare i pazienti in base alla gravità della malattia e per scegliere le terapie più adatte e mirate al tipo di tumore. Un esempio tra molti è il tumore al seno: la presenza o assenza di recettori, per esempio, per HER2 si stabilisce con test che utilizzano anticorpi monoclonali. L’esito, positivo o negativo, permette di stabilire se le pazienti potranno o meno rispondere al trastuzumab, un trattamento specifico, basato a sua volta su un anticorpo monoclonale.

Gli anticorpi monoclonali si utilizzano peraltro in moltissimi test diagnostici, dai comuni test di gravidanza da fare a casa ai test sierologici per Covid-19. Alla base di tutte queste applicazioni vi è il principio che l’anticorpo utilizzato leghi in modo specifico l’antigene di interesse, se questo è presente nel campione analizzato. Se e quando si forma il legame fra antigene e anticorpo viene rivelato tramite reazioni chimiche che producono un segnale, come una colorazione o una fluorescenza.

Gli anticorpi monoclonali per la terapia dei tumori solidi

Quando gli anticorpi monoclonali vengono usati per curare i tumori, il principio attivo è in genere uno specifico anticorpo che può agire in diversi modi. Può interferire con precisi processi di proliferazione del tumore, può “etichettare” le cellule tumorali affinché il sistema immunitario le riconosca e le elimini, oppure può rimuovere i cosiddetti checkpoint immunitari, speciali sistemi in grado di bloccare le azioni del sistema immunitario stesso contro un tumore. Gli anticorpi monoclonali possono anche essere usati come veicoli di altre sostanze, per esempio di isotopi radioattivi o di farmaci chemioterapici o di altro tipo, direttamente sul sito del tumore.

Per interferire con la crescita di un tumore, un anticorpo monoclonale riconosce una proteina essenziale per la proliferazione delle cellule tumorali, si lega a essa e ne impedisce la funzione. È il caso del trastuzumab (anti-HER2), uno dei primi anticorpi monoclonali approvati e usati in oncologia per curare il tumore della mammella; del panitumumab (anti-EGFR), utile contro il tumore del colon-retto; o del cetuximab (anti-EGFR), efficace per trattare sia il tumore del colon sia i tumori del distretto testa e collo. Anche l’anticorpo bevacizumab (anti-VEGF) interferisce con la crescita del tumore bloccando il processo di angiogenesi, la formazione di nuovi vasi sanguigni che portano nutrimento al tumore facendolo aumentare di volume. È utilizzato, in associazione ad altri farmaci, per il trattamento di diversi tipi di tumori solidi in stadio avanzato o metastatico.

Gli anticorpi monoclonali utilizzati come veicoli sono detti in gergo immunoconiugati e stanno consentendo notevoli miglioramenti nella cura di diversi tipi di tumori solidi, tra cui quello del seno. Permettono infatti ai farmaci veicolati di raggiungere le cellule tumorali anche quando hanno bassi livelli dei recettori che sono il bersaglio di questi composti. Sempre più pazienti possono così essere curate con terapie più precise e mirate, concentrando le dosi, senza per questo aumentare gli effetti collaterali.

Infine, gli anticorpi monoclonali inibitori dei checkpoint immunitari includono farmaci che hanno rivoluzionato la terapia di tumori come quello del polmone e il melanoma. Come abbiamo anticipato, nivolumab (anti-PD1), pembrolizumab (anti-PD1) e ipilimumab (anti-CTLA4) riconoscono molecole presenti sulla superficie dei globuli bianchi, che agiscono come freno alla risposta immunitaria. Rimuovendo questo freno, si attiva una potente risposta immunitaria antitumorale che distrugge le cellule tumorali. Molti altri anticorpi monoclonali diretti contro altri bersagli simili a questi sono al momento in fase di studio.

Gli anticorpi monoclonali in ematologia

Gli anticorpi monoclonali hanno trasformato radicalmente la diagnosi, la terapia e la prognosi di molti tipi di cancro e in particolar modo dei tumori del sangue. Anche in quest’ambito contribuiscono all’inquadramento diagnostico, alla classificazione dei pazienti in base alla gravità della malattia e al monitoraggio della malattia minima residua, permettendo di valutare con maggiore precisione la risposta alle terapie e aprendo la strada a trattamenti sempre più precisi e mirati. Il primo anticorpo monoclonale approvato dalla FDA per un tumore ematologico è stato il rituximab, nel 1997, per un tipo di linfoma non-Hodgkin. Questo farmaco si attacca alla superficie delle cellule tumorali in modo da attirare l’attenzione del sistema immunitario, che provvede così a distruggere le cellule malate “decorate” (in gergo si dice proprio così!) con gli anticorpi. Da allora, lo sviluppo di tecnologie più avanzate ha portato alla creazione di anticorpi bispecifici, come il blinatumomab, capace di colpire 2 bersagli contemporaneamente, attivando così una potente risposta immunitaria. Il suo impiego ha cambiato radicalmente il trattamento di alcuni tipi di leucemia acuta, rendendo possibili protocolli terapeutici che necessitano sempre meno della chemioterapia e, in alcuni casi, se ne può addirittura fare a meno, come hanno dimostrato le ricerche guidate da Robin Foà all’Università “La Sapienza” a Roma.

Onnipresenti in laboratorio

Al di là degli usi diagnostici e terapeutici, gli anticorpi monoclonali sono oggi strumenti indispensabili anche per la ricerca biomedica. La ricerca sul cancro, come quella per altre malattie, non può fare a meno di questi strumenti di analisi e di studio, i cui costi possono però incidere non poco sul budget di un laboratorio.

Autore originale: Agenzia Zoe

Revisione di Sofia Corradin in data 26/09/2025

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