Gli anticorpi monoclonali si usano già da tempo in oncologia

Se ne sta parlando molto come possibile cura contro il Covid-19, ma gli anticorpi monoclonali non sono una novità. Sono usati da molti anni sia come farmaco sia come strumento di ricerca

Ultimo aggiornamento: 15 marzo 2021

Tempo di lettura: 6 minuti

In questo articolo risponderemo alle domande:

  1. Cosa sono gli anticorpi monoclonali?
  2. Come si producono?
  3. Quali anticorpi monoclonali vengono già usati nella pratica clinica?
  4. Perché si utilizzano moltissimo nei laboratori?

La pandemia di Covid-19 ha portato alla ribalta gli anticorpi monoclonali. Diverse aziende farmaceutiche stanno infatti sperimentando farmaci basati su questa tecnologia come terapia contro le infezioni da SARS-CoV-2. Il bersaglio è nuovo, ma la strategia, come vedremo, è nota da tempo, specialmente in oncologia.

Cos’è un anticorpo

Gli anticorpi o immunoglobuline (Ig) sono proteine prodotte dai linfociti B, un tipo di globuli bianchi, la cui funzione è riconoscere e legare molecole specifiche. Per la forma, un anticorpo può ricordare la lettera Y. Dal punto di vista strutturale è composto da quattro catene di amminoacidi, due lunghe (o pesanti) e due corte (leggere). Negli esseri umani esistono cinque classi di anticorpi (IgA, IgD, IgE, IgG e IgM) che hanno forma e funzioni diverse. Una caratteristica peculiare degli anticorpi è la specificità: grazie alle estremità, diverse da anticorpo ad anticorpo, possono legarsi in modo specifico a piccole porzioni di macromolecole (in genere proteine), che vengono chiamate antigeni. Una persona può produrre fino a un miliardo di anticorpi diversi, ognuno con una specificità diversa da quella di tutti gli altri. Il legame tra antigene e anticorpo dà il via ai processi molecolari e cellulari di difesa dell’organismo.

Uno, cento, mille cloni

In risposta a un microbo invasore, i nostri linfociti B produrranno moltissimi anticorpi, ognuno dei quali riconosce una porzione dell’agente infettivo. Questa porzione costituisce l’antigene. Se immaginiamo un microbo a forma di carro armato, ci saranno anticorpi specifici per la punta del cannone, altri specifici per il portellone, altri per la torretta, altri per un preciso punto dei cingoli e così via.

Ogni linfocita B che produce uno di questi anticorpi si moltiplicherà generando moltissimi linfociti B identici: ciascuna di queste popolazioni di linfociti B rappresenta un clone. Tutti i membri di un clone producono un solo tipo di anticorpo (per esempio, solo quello che si lega con la punta del cannone o con la torretta). La risposta anticorpale del sistema immunitario è detta policlonale perché, come detto, vengono prodotti contemporaneamente tanti tipi di anticorpi. Non tutti gli anticorpi però legano l’antigene con la stessa potenza e non tutti hanno la stessa capacità di neutralizzare il microbo invasore portatore di quell’antigene. Quando si utilizza un anticorpo in clinica o in ricerca, ormai si lavora quasi sempre con i cosiddetti anticorpi monoclonali, prodotti in laboratorio a partire da un solo clone e quindi tutti uguali. Il clone viene selezionato attentamente per garantire che sia specifico (riconosca solo l’antigene di interesse), abbia un’elevata affinità (si leghi fortemente all’antigene) e attivi le risposte desiderate.

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Una tecnica rivoluzionaria

Se vogliamo produrre un anticorpo possiamo inoculare l’antigene in un animale e recuperare dal suo siero gli anticorpi specifici contro quell’antigene. Con questo sistema, però, otteniamo un siero policlonale e abbiamo a disposizione il siero solo per la durata di vita dell’animale. Isolando le cellule dell’animale che producono gli anticorpi, e crescendole in coltura, possiamo invece ottenere singoli cloni e selezionare il clone che produce l’anticorpo con le caratteristiche migliori, però siamo ancora limitati dal fatto che i linfociti B non sopravvivono in eterno.

Nel 1975 Georges Köhler e César Milstein trovarono il modo di “rendere immortali” le cellule che producono un anticorpo di interesse, “fondendole” con particolari linee cellulari in grado di moltiplicarsi indefinitamente in coltura. Così si ha una fonte potenzialmente inesauribile di un anticorpo di cui si conoscono la specificità, l’affinità e l’attività. Per produrre un anticorpo monoclonale, si introduce l’antigene in un roditore (topo o ratto) e, trascorso un numero di giorni sufficienti perché avvenga la risposta immunitaria, si isola la milza dell’animale. Le cellule della milza vengono fuse con cellule immortalizzate in coltura e poi fatte crescere in tanti compartimenti separati per ottenere i singoli cloni. L’anticorpo prodotto da ciascun clone viene quindi sperimentato in animali da laboratorio e, se i risultati sono positivi, negli esseri umani. Una volta identificato un clone che possiede le caratteristiche desiderate, lo si fa crescere in gran quantità in coltura, quindi si purificare l’anticorpo monoclonale secreto dalle cellule nel terreno di coltura. Per la messa a punto di questa tecnica, Köhler e Milstein furono insigniti del Nobel per la medicina nel 1984.

Gli usi clinici

Nel 1986 è stato approvato dalla Food and Drug Administration americana il primo anticorpo monoclonale usato come farmaco, chiamato OKT3. Esso si lega a un recettore espresso dai linfociti T (CD3) e, bloccando la risposta di queste cellule immunitarie, provoca uno stato di immunodepressione che impedisce il rigetto degli organi trapiantati. Un altro dei primi anticorpi monoclonali entrati in clinica con grande successo è l’infliximab, impiegato per il trattamento dell’artrite reumatoide, che riconosce e neutralizza la citochina infiammatoria TNF-alfa (ed è per questo un anticorpo monoclonale anti-TNF-alfa). Per convenzione gli anticorpi monoclonali sono abbreviati con “mAb” (dall’inglese, monoclonal antibodies) e a quelli usati come farmaci viene dato un nome che termina con il suffisso “mab”. Nel tempo sono stati prodotti e approvati molti altri anticorpi e la tecnologia utilizzata per produrli si è notevolmente evoluta. I primi anticorpi monoclonali erano infatti tutti realizzati a partire da anticorpi di topi o ratti, il che poteva provocare nell’organismo umano una reazione da parte del sistema immunitario del paziente che li riconosceva come sostanze estranee. Utilizzando tecniche di biologia molecolare e ingegneria genetica, oggi è possibile produrre anticorpi monoclonali utilizzando solo materiale di origine umana ed evitare questo problema. In generale gli anticorpi monoclonali richiedono un grosso lavoro di messa a punto, basti pensare che bisogna testare centinaia o migliaia di cloni prima di trovare “quello giusto”, e questo si riflette sul loro costo finale. I cosiddetti farmaci biologici, la classe a cui appartengono gli anticorpi monoclonali usati in terapia, sono in genere assai più dispendiosi dei farmaci che si possono sintetizzare chimicamente.

Gli anticorpi monoclonali in oncologia

Gli anticorpi monoclonali vengono usati anche per curare i tumori. Il principio attivo è in genere l’anticorpo monoclonale che riconosce una proteina essenziale per la proliferazione presente sulle cellule tumorali e legandosi a essa impedisce la crescita del tumore. È questo il caso del trastuzumab (anti-HER2), usato per curare il tumore della mammella, del panitumumab (anti-EGFR), utile contro il tumore del colon-retto, o del cetuximab (anti-EGFR), efficace per trattare sia il tumore del colon sia i tumori di testa e collo. L’anticorpo bevacizumab (anti-VEGF) interferisce invece con il processo di angiogenesi, la formazione di nuovi vasi sanguigni che portano nutrimento al tumore, ed è utilizzato, in associazione ad altri farmaci, per il trattamento di diversi tipi di tumori solidi. Gli anticorpi monoclonali possono essere usati persino per indirizzare isotopi radioattivi o farmaci chemioterapici direttamente al sito del tumore. Nel caso dei tumori del sangue, si usano anticorpi come il rituximab (anti-CD20), che provocano l’eliminazione delle cellule malate in quanto, attaccandosi alla loro superficie, attirano l’attenzione del sistema immunitario che provvede a distruggere le cellule “decorate” (in gergo si dice proprio così!) con gli anticorpi. Infine, sono anticorpi monoclonali anche gli inibitori dei checkpoint immunologici, farmaci che hanno rivoluzionato la terapia di tumori come il tumore del polmone e il melanoma. Nivolumab (anti-PD1), pembrolizumab (anti-PD1) e ipilimumab (anti-CTLA4) riconoscono molecole, presenti sulla superficie dei globuli bianchi, che agiscono come freno alla risposta immunitaria: inibito questo freno, si attiva una potente risposta antitumorale che distrugge le cellule tumorali. Molti altri anticorpi diretti contro altri bersagli sono al momento in fase di studio.

Onnipresenti in laboratorio

Al di là dell’uso terapeutico, gli anticorpi monoclonali sono diventati strumenti indispensabili in medicina. Si utilizzano infatti in moltissimi test diagnostici, dai comuni test di gravidanza da fare a casa ai test sierologici per il Covid-19. Alla base di tutte queste applicazioni vi è il principio che l’anticorpo utilizzato leghi in modo specifico l’antigene di interesse, se questo è presente nel campione analizzato; il legame fra antigene e anticorpo, se si è formato, viene rivelato tramite reazioni chimiche che producono un segnale, come una colorazione o una fluorescenza. L’immunoistochimica e la citofluorimetria, tecniche basate sull’utilizzo di anticorpi monoclonali, sono essenziali per la caratterizzazione sia dei tumori solidi sia di quelli ematologici.

Anche la ricerca sul cancro, così come quella per altre malattie, non può fare a meno degli anticorpi monoclonali, che in tanti casi incidono non poco sul budget del laboratorio.

  • Agenzia Zoe