Perché è così difficile trovare una cura per il cancro dell’ovaio?

Perché il tumore ovarico sfugge alla diagnosi precoce, spesso ha già dato metastasi quando viene diagnosticato ed è caratterizzato da una grande eterogeneità genetica.

Ultimo aggiornamento: 22 marzo 2023

Tempo di lettura: 8 minuti

In sintesi

  • La sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi di cancro dell’ovaio è oggi pari al 43 per cento circa;
  • Nel 20 per cento dei casi in cui il tumore viene diagnosticato precocemente, la sopravvivenza a cinque anni aumenta notevolmente e questo rende particolarmente importante identificare dei marcatori della malattia nelle fasi iniziali;
  • La ricerca di marcatori biologici nel sangue in grado di facilitare la diagnosi precoce non ha ancora dato i risultati sperati e i test disponibili non sono sufficientemente affidabili;
  • I tumori ovarici sono caratterizzati da una grande variabilità di mutazioni genetiche (anche a carico del ben noto gene BRCA) che rendono difficile l’identificazione dei bersagli più efficaci per una terapia mirata;
  • Negli ultimi anni sono stati compiuti importanti progressi nel trattamento grazie all’utilizzo di nuovi farmaci a bersaglio molecolare e sono in fase di approfondimento anche nuovi esami diagnostici.

Secondo i dati presenti nel rapporto “I numeri del cancro in Italia 2022” a cura, tra gli altri, dell’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM) e dell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM), nel 2022 sono stati circa 5.200 i nuovi casi di tumore dell’ovaio stimati in Italia, contro i 55.700 casi di tumore della mammella. Risulta elevato anche il numero dei decessi: il tasso di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è pari al 43 per cento, a fronte dell'88 per cento per le donne colpite da cancro al seno.

La chirurgia ha ancora un ruolo di primo piano nella cura del tumore ovarico tanto che, quando la malattia è in fase iniziale, l’intervento è curativo nel 70 per cento circa dei casi. Tuttavia, anche nei casi di tumore in stadio iniziale dopo l’intervento chirurgico viene prescritta la chemioterapia, che in questo caso viene definita adiuvante, dato il rischio del 25-30 per cento che la malattia si ripresenti con una recidiva.

Dal punto di vista farmacologico, la chemioterapia a base di platino, taxolo e derivati è ancora oggi un pilastro del trattamento. Dalla ricerca però sono emerse importanti novità. Sono state recentemente sviluppate e sperimentate diverse terapie innovative, tra le quali combinazioni nuove di chemioterapici (come l’associazione tra trabectedina e doxorubicina liposomiale peghilata), nuovi tempi di somministrazione (settimanale anziché ogni tre settimane), la somministrazione intraperitoneale dei farmaci anticancro e alcuni farmaci antiangiogenici (come l’anticorpo monoclonale bevacizumab). Un ulteriore grande passo avanti è stata la messa a punto di una categoria di farmaci del tutto nuova, gli inibitori di PARP (olaparib è uno dei primi e dei più noti), particolarmente attivi contro i tumori causati da mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2. Sono inoltre in corso sperimentazioni di immunoterapia.

Come mai, dunque, l’efficacia di queste nuove strategie è ancora limitata?

La diagnosi precoce

Il cancro dell’ovaio è una malattia subdola. Il più delle volte si manifesta con sintomi del tutto generici, come disturbi gastrointestinali, gonfiore addominale, disturbi urinari, che ritardano la diagnosi. Anche quando i sintomi agiscono come campanello d’allarme, il tumore è spesso già a uno stadio relativamente avanzato.

Si calcola che meno del 20 per cento dei tumori ovarici viene diagnosticato in fase precoce, quando è ancora confinato all’ovaio, ma quando ciò accade la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi raggiunge il 90 per cento circa.

Per quanto ne sappiamo finora, controlli ginecologici standard (esame della pelvi, Pap test) non servono all’identificazione precoce di questo tumore.

L’ecografia transvaginale ha mostrato una qualche utilità in alcuni studi, ma identifica anch’essa tumori già avanzati, così come la misurazione del CA-125, un marcatore tumorale presente nel sangue che potrebbe aiutare a individuare la malattia in una fase relativamente precoce, sempre che si sospetti qualcosa. Il CA-125 è comunque un test imperfetto, che dà molti risultati falsamente positivi: per questo non è utile come screening da proporre a tutte le donne, indipendentemente dal loro livello di rischio individuale.

La difficoltà nell’identificare strumenti di screening efficaci per ridurre la mortalità legata al tumore ovarico è stata sottolineata dai risultati dello studio “The United Kingdom Collaborative Trial of Ovarian Cancer Screening” (UKCTOCS), pubblicati sulla rivista Lancet nel 2021.

Basati sull’analisi di oltre 202.000 donne, i risultati ottenuti in oltre 16 anni di osservazione hanno dimostrato che, tramite programmi di screening con l’esame dei livelli di CA-125 o l’ecografia transvaginale, è possibile aumentare la percentuale di tumori diagnosticati in stadio iniziale. Grazie allo screening si è osservata anche una riduzione del 10 per cento dei tumori di stadio III e IV, ma non una riduzione della mortalità legata al tumore.

La ricerca si sta dunque concentrando sull’identificazione di altri marcatori nel sangue che possano essere utilizzati in un eventuale screening, da soli o in combinazione tra loro e con le altre tecniche di screening note.

In alcuni studi si cerca di sviluppare nuove strategie per distinguere i tumori ovarici benigni e maligni. Sono prese in considerazioni le analisi di proteomica, ovvero dell’insieme delle proteine, su campioni di siero, o il naso elettronico descritto da un gruppo di ricercatori italiani in un articolo pubblicato sulla rivista Cancers. In base ai risultati preliminari, quest’ultima tecnologia, che si basa sull’analisi dei composti volatili emessi con il respiro, potrebbe essere in grado di identificare in modo piuttosto accurato le donne con tumore all’ovaio da quelle senza massa ovarica, ma i risultati dovranno essere confermati in ampi studi clinici. Più recentemente, in un articolo pubblicato nel 2022 sulla rivista JMIR Public Health and Surveillance, un gruppo di ricercatori inglesi ha mostrato che la lista dei farmaci da banco acquistati dalle donne potrebbe aiutare a diagnosticare più tempestivamente un tumore dell’ovaio. Secondo l’indagine, le donne che tendevano ad acquistare più farmaci, e quindi che presumibilmente soffrivano di più, correvano un maggior rischio di sviluppare questa forma di tumore, rispetto a coloro che ne compravano (e pativano) di meno. Inoltre, considerando che queste differenze emergevano ben otto mesi prima della diagnosi, i risultano dello studio suggeriscono che tale correlazione possa avere una funzione predittiva sul rischio di tumore ovarico.  Tuttavia al momento non è stata ancora identificata la soluzione ideale per diagnosticare precocemente la malattia. Per questa ragione non ci sono attualmente screening raccomandati per la prevenzione di questo tumore.

Per le donne a rischio particolarmente elevato per le proprie caratteristiche genetiche o per la storia clinica familiare, può essere usata come strategia di prevenzione la rimozione chirurgica delle ovaie. Trattandosi di un’opzione particolarmente invasiva e demolitiva, che non elimina del tutto il rischio di tumore, deve essere discussa in modo approfondito con lo specialista. In questo contesto, un gruppo di ricerca inglese ha valutato sulla rivista British Journal of Obstetrics and Gynaecology l’atteggiamento delle donne a rischio elevato nei confronti di un diverso approccio chirurgico di prevenzione. Consiste in una chirurgia preventiva in due fasi. Nella prima si rimuovono le tube, preservando le ovaie, mentre nella seconda – quando le donne hanno raggiunto la menopausa – si rimuovono chirurgicamente anche le ovaie. Così facendo si otterrebbe una parziale riduzione del rischio, evitando l’impatto negativo della menopausa precoce. Il 69 per cento delle donne in pre-menopausa non sottoposte a chirurgia preventiva tradizionale ha dichiarato di essere disposta a prendere parte a uno studio su questa chirurgia in due fasi.

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La natura della malattia

Si sa ormai con certezza che in oltre la metà dei casi di tumore ovarico le cellule tumorali presentano difetti del meccanismo di riparazione del DNA, denominato ricombinazione omologa. Circa un quarto dei tumori con tali difetti è legato a mutazioni dei geni BRCA1 o BRCA2 nella linea germinale, che si possono trasmettere da genitori a figli. In un ulteriore 20 per cento dei casi la ricombinazione omologa del DNA è difettosa per alterazioni molecolari diverse da quelle dei geni BRCA e che possono essere sfruttati in terapia.

Infatti alcuni di questi difetti rendono le cellule tumorali particolarmente sensibili all’azione di farmaci mirati come gli inibitori di PARP.

La valutazione delle mutazioni germinali dei geni BRCA, oltre a essere importante per la scelta della terapia nelle pazienti, è utile anche per la prevenzione. Aiuta infatti a identificare soggetti ad alto rischio che richiedono un attento monitoraggio ed eventualmente interventi per ridurre le probabilità che si sviluppi la malattia, come l’asportazione chirurgica delle ovaie o anche delle tube di Falloppio. Negli anni, studi di anatomia patologica hanno suggerito che il carcinoma sieroso di alto grado, che è il tumore maligno più frequente, originasse in realtà dalle tube di Falloppio, anche se tale teoria è oggetto di discussione tra gli esperti.

Ecco perché curare il tumore ovarico è così difficile: spesso si tratta di una malattia che “nasce” già metastatica e che rapidamente si trasmette agli organi contigui, ancor prima di dare origine a masse tumorali rilevabili con l’ecografia.

In molti casi il carcinoma dell’ovaio risponde inizialmente alle terapie disponibili e a volte continua a rispondere anche in caso di recidiva, soprattutto se questa si presenta dopo molto tempo. Generalmente, però, diventa resistente alle terapie in caso di recidive successive. Pertanto la ricerca deve mettere a punto nuovi farmaci e nuove combinazioni di farmaci più efficaci anche contro la malattia resistente ai trattamenti contenenti platino, a oggi i più attivi disponibili.

Il patchwork genetico

Anche sul piano farmacologico il cancro ovarico rappresenta una sfida per i ricercatori. I farmaci mirati, infatti, hanno bisogno di bersagli precisi sulle cellule tumorali per agire in modo efficace. Tali bersagli sono in genere costituiti da geni mutati o dalle relative proteine.

Nel caso dei tumori ovarici si assiste al cosiddetto "patchwork genetico", ovvero a una frequenza e variabilità di mutazioni tale (anche all'interno della stessa massa tumorale) da rendere complessa l’identificazione di un bersaglio chiave.

Diversi laboratori nel mondo stanno raccogliendo campioni di tessuto tumorale ovarico per studiare l’intero corredo genetico delle cellule, analizzando i dati con metodi bioinformatici in grado di individuare, se possibile, le alterazioni genetiche ed epigenetiche più frequenti e quelle legate alle forme più aggressive della malattia.

Su questo aspetto della biologia del tumore ovarico la ricerca italiana sta dando importanti contributi alla comunità scientifica. I risultati pubblicati nel 2021sulla rivista Oncotarget, di uno studio svolto grazie anche al contributo di Fondazione AIRC, hanno mostrato che le caratteristiche molecolari del tumore sono in continua evoluzione nel tempo e nello spazio, motivo per cui la malattia è così difficile da identificare precocemente e da trattare con farmaci mirati.

Per trovare una cura per il tumore ovarico, quindi, serve ancora più ricerca. Specialmente ora che i meccanismi alla base della malattia cominciano a essere più chiari grazie agli sforzi compiuti negli ultimi vent’anni da molti laboratori nel mondo.

  • Agenzia Zoe

    Agenzia di informazione medica e scientifica