Il momento della diagnosi può creare spaesamento e traumi. Per questo è necessario affidarsi a specialisti in grado di fornire il sostegno adatto.
Il momento della diagnosi e dell’inizio dei trattamenti è uno dei più difficili dal punto di vista psicologico per i pazienti e i loro familiari, perché provoca un forte spaesamento e a volte anche un trauma. Se queste emozioni persistono, può essere utile chiedere aiuto a familiari o amici ed eventualmente affidarsi a un centro qualificato che sia in grado di garantire assistenza adeguata, accompagnando eventualmente il paziente in tutto il suo percorso e rispondendo ai suoi vari bisogni.
In genere, le prime persone alle quali ci si può rivolgere sono quelle appartenenti alla propria rete informale di relazioni: i familiari, gli amici, i compagni della parrocchia o di altri gruppi sociali ai quali si appartiene. Sarebbe bene che i pazienti fossero accompagnati da una di queste figure durante i primi accertamenti e visite, dopo l’iniziale sospetto diagnostico. I risultati della ricerca psico-oncologica suggeriscono che, in queste occasioni, il carico emotivo sia tale da ridurre la capacità della persona interessata di elaborare in modo razionale le informazioni che le vengono fornite. È piuttosto comune che i pazienti riferiscano di non ricordare con esattezza cosa è stato comunicato loro durante questi appuntamenti.
Non sempre, però, la condivisione con la propria rete di relazioni basta ai pazienti per aiutarli a mantenere un equilibrio psicologico ed emotivo adeguato ad affrontare il percorso terapeutico. In questi casi ci si può rivolgere con serenità a specialisti in grado di fornire il sostegno adatto. Bisognerebbe valutare questo tipo di supporto in particolare in caso di alterazioni significative della propria normalità, rispetto per esempio al ritmo sonno-veglia (manifestazioni di insonnia o, al contrario, letargia), alle abitudini alimentari (inappetenza o tendenza a mangiare senza controllo) o, in generale, alle proprie abitudini caratteristiche. Può anche capitare di perdere interesse per le proprie passioni o di chiudersi in casa senza più voler uscire o incontrare gli amici.
Per sapere a chi rivolgersi per le cure, in molte regioni italiane sono già attive le cosiddette reti oncologiche, sistemi amministrativi che organizzano tutti i servizi disponibili sul territorio – dai medici di medicina generale alle divisioni oncologiche dei vari ospedali, fino a eventuali centri di eccellenza per terapie particolarmente specializzate e alle strutture per le cure palliative. Le reti dovrebbero avere il compito di accompagnare ogni paziente nel percorso di cura migliore per il proprio caso. La rete dovrebbe inoltre garantire sia la presa in carico del malato, sia il suo indirizzamento verso il centro più adatto alla sua situazione, che – a parità di servizi – può essere il centro più vicino a casa, oppure quello del capoluogo in grado di offrire terapie non disponibili altrove. Inoltre dovrebbe assicurare una maggior rapidità nell’esecuzione di visite ed esami e la multidisciplinarità dell’approccio, per rispondere per esempio ai bisogni psicologici dei pazienti o agli effetti collaterali delle terapie.
Purtroppo, reti di questo tipo non sono ancora attive in tutte le regioni o, dove lo sono, non sempre funzionano al meglio. La buona notizia è che in Italia l’assistenza fornita dalle divisioni accreditate di oncologia può essere, in generale, ritenuta di livello medio-alto. Significa che, anche laddove l’organizzazione generale della presa in carico non è a regime, i pazienti hanno comunque a disposizione centri di qualità nei quali ricevere terapie, non necessariamente lontano da casa.
Chi riceve una diagnosi complessa e impegnativa come quella di cancro spesso desidera l’opinione di un secondo medico sulla diagnosi stessa ed eventualmente sulla terapia. È un bisogno psicologico comprensibile, e non è una dichiarazione di sfiducia nei confronti del primo medico consultato. Del resto, la sempre maggiore specializzazione della medicina fa sì che siano proprio i medici a chiedere per primi e con sempre più frequenza l’opinione di colleghi che hanno visto più casi.
Poter contare su più di un’opinione è un diritto dei pazienti. È importante però scegliere con attenzione i medici, evitando pellegrinaggi da uno specialista a un altro e scegliendo professionisti specializzati in oncologia e non in altri ambiti clinici.
Nonostante tutti i progressi che sono stati fatti in medicina e in oncologia negli ultimi anni, la maggior parte delle diagnosi di cancro si fanno ancora in base a quello che il patologo vede al microscopio, sui vetrini contenenti campioni di tessuti ottenuti con le biopsie o nel corso degli interventi chirurgici. È il patologo a definire se il tessuto sospetto è di natura maligna o benigna e a determinare le caratteristiche della lesione necessarie a stabilire prognosi e cura. Non tutti i patologi, però, si sentono sufficientemente preparati su determinate malattie. A volte hanno dubbi su alcuni tumori rari o che possono essere facilmente confusi con altre patologie, oppure c’è disaccordo tra medici dello stesso laboratorio sull’interpretazione da dare al vetrino esaminato. In tutti questi casi sono gli stessi dottori a chiedere un secondo parere a un centro più specializzato. Secondo quanto riportato da specialisti italiani in un articolo pubblicato a marzo 2021 sulla rivista Critical Reviews in Oncology/Hematology, “il secondo parere dovrebbe essere considerato tassativo nel caso dei tumori rari, per i quali è ampiamente riconosciuto il ruolo fondamentale di centri specializzati”.
Un bravo specialista non deve sentirsi sminuito nel domandare l’opinione di un collega. È praticamente impossibile per un singolo medico conoscere tutte le variabili morfologiche che si riscontrano nei tessuti tumorali e la loro corretta interpretazione. Se usato con buon senso, dunque, il secondo parere aumenta la probabilità di fare diagnosi accurate e quindi anche di suggerire cure appropriate, per esempio per alcune lesioni della mammella dove il confine tra benignità e malignità è estremamente sottile.
Anche un paziente può decidere di chiedere un secondo parere medico, per esempio per avere conferma della diagnosi o del trattamento proposto, soprattutto nei casi più gravi o che richiedono interventi particolarmente importanti. Alcuni pazienti – spesso sostenuti o spinti in questo dai familiari – chiedono un secondo parere semplicemente per saperne di più, sulla malattia o su eventuali tossicità ed effetti collaterali delle terapie proposte. Altri ancora si rivolgono a un secondo medico perché non sono soddisfatti della relazione instaurata con il primo. In generale, comunque, i pazienti si aspettano dal secondo medico una maggiore empatia e attenzione al loro caso.
Da qualche anno anche in Italia si sta sempre più diffondendo la richiesta del secondo parere sui referti istologici di biopsie o interventi chirurgici, soprattutto in ambito oncologico. La procedura, nel caso sia il paziente stesso a prendere l’iniziativa, consiste nel recarsi all’ospedale dove è stata eseguita la biopsia, richiedere i vetrini e portarli personalmente o inviarli per posta all’esperto prescelto (nel caso in cui, nel luogo di residenza, nessun ospedale offra un servizio di secondo parere). Spesso il secondo medico interpellato conferma l’opinione del primo. Se invece dovesse suggerire un’alternativa, spetta al paziente scegliere quale delle due strade percorrere.
Il secondo parere è di frequente ottenibile solo a pagamento, perché il Servizio sanitario nazionale non riconosce come prioritaria questa possibilità. In caso di pareri discordanti, il paziente deve decidere di chi fidarsi. In queste situazioni spesso la relazione che si è instaurata con un certo medico prevale sulla competenza.
Quando un paziente decide di chiedere un secondo parere, le possibili reazioni del primo medico possono essere diverse, come è spiegato nell’articolo “Second Medical Opinion in Oncological Setting” pubblicato di recente da Marco Marazza e colleghi sulla rivista Critical Reviews in Oncology/Hematology. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non tutti i medici si offendono per richieste di questo genere. Alcuni le ritengono del tutto legittimo e anzi pensano che la conferma della prima opinione – come molto spesso accade – possa migliorare lo stato emotivo e psicologico dei pazienti.
Quanto ai nuovi medici interpellati, spesso i pazienti non comunicano che si tratta della richiesta di un secondo parere, o lo fanno solo dopo aver ottenuto la conferma del primo. Ritengono che, omettendo queste informazioni, il secondo medico possa essere più imparziale e obiettivo. In realtà il secondo parere può essere tanto più utile e informativo quanti più il medico interpellato riesce a conoscere della situazione del paziente che ha di fronte, incluse le informazioni e i dati emersi nella prima consultazione. Proprio per migliorare l’efficacia del secondo parere, l’articolo citato, che è anche un documento programmatico congiunto dell’Associazione italiana oncologi medici (AIOM) e di Fondazione AIOM, propone un “decalogo sul secondo parere in oncologia”. Il decalogo è rivolto ai medici, ma contiene spunti interessanti anche per i pazienti.
Se il vostro paziente richiede un secondo parere o voi ritenete che debba richiederlo:
Se siete chiamati a fornire una seconda opinione:
Fino a non molti anni fa, il coinvolgimento del paziente nei percorsi di assistenza oncologica era piuttosto limitato. Spesso i pazienti non erano neppure del tutto consapevoli della loro condizione, e non solo per loro scelta. Familiari e medici ritenevano più utile non rivelare dettagli e non coinvolgerli nelle scelte relative alle strategie terapeutiche. Le cose però stanno cambiando e sempre più spesso si parla di “patient engagement”, un’espressione inglese che in italiano si traduce con “coinvolgimento dei pazienti”. Tale coinvolgimento deve riguardare il percorso di cura, la consapevolezza e la partecipazione attiva dei pazienti alle decisioni che li riguardano.
Una delle ragioni – ma non l’unica – alla base di questo cambiamento dipende dalla natura della psicologia umana: abbiamo imparato che il cervello reagisce meglio in situazioni note e che, al contrario, l’ignoto in genere ne complica il funzionamento. Se un paziente non conosce la situazione che sta vivendo, è difficile che possa attivare le risorse psicologiche necessarie per affrontarla al meglio. Viceversa, conoscere aiuta a vivere nel modo migliore possibile il percorso terapeutico. I risultati di alcuni studi mostrano che il coinvolgimento attivo dei malati nel processo di cura sembra avere un impatto positivo non solo sul loro benessere psicologico ed emotivo, ma anche sui risultati clinici.
Ottenere questo risultato, però, non è così immediato: servono sia una certa propensione dei pazienti ad attivarsi, sia un adeguato atteggiamento comunicativo da parte degli operatori sanitari. Anche perché, durante il percorso di acquisizione di consapevolezza di un malato, possono verificarsi delle battute d’arresto. Inoltre le informazioni da comunicare possono essere più o meno delicate a seconda delle condizioni e quindi della prognosi. Senza contare che di fronte a una malattia è del tutto normale vivere momenti di regressione, nei quali si tende a deresponsabilizzarsi affidando ad altri la gestione della propria situazione. Come spesso accade, un atteggiamento intermedio tra i due può essere di maggiore aiuto. I pazienti devono avere la possibilità di informarsi e partecipare attivamente al proprio processo di cura, se lo desiderano. Allo stesso tempo, devono avere anche la possibilità di affidarsi agli altri se questo li fa sentire meglio.
Redazione
Articolo pubblicato il:
27 settembre 2023