Ultimo aggiornamento: 5 settembre 2025
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Nel 2017 i Livelli Essenziali di Assistenza emanati dal Ministero della Salute hanno stabilito che lo screening mammografico deve essere offerto gratuitamente a tutte le donne d’età compresa tra i 50 e i 69 anni. Le linee guida europee e italiane suggeriscono inoltre di estendere lo screening alle donne fra i 45 e i 49 anni e a quelle fra i 70 e i 74 anni, a condizione che sia garantito lo screening nelle 50-69enni. Attualmente tutte le regioni italiane offrono attivamente lo screening ogni 2 anni a tutte le donne fra i 50 e i 69 anni e alcune stanno attualmente estendendo il programma anche alla fascia 45-49 anni (con cadenza annuale) e 70-74 anni (con cadenza biennale). Poiché l’estensione dello screening varia a livello regionale, si consiglia di consultare le indicazioni per la propria Regione, alla pagina dedicata.
Può venire spontaneo chiedersi: perché un esame che permette di diagnosticare in anticipo il cancro del seno non viene offerto gratuitamente alle donne di tutte le età?
Nella fascia d’età 50-69 anni i vantaggi dello screening sono massimi perché la mammografia nel seno dopo la menopausa è particolarmente sensibile e l’incidenza di tumori è alta, mentre gli svantaggi sono ridotti (sono relativamente pochi i risultati falsi positivi e più basso è per questo il rischio sovradiagnosi).
Invece, nelle donne più giovani, al di sotto dei 45 anni, o più anziane, sopra i 74 anni, il bilancio dei rischi e benefici dello screening è meno favorevole, o perché la mammografia è meno accurata e segnala più falsi positivi (nelle più giovani) o perché l’aspettativa di vita è più limitata (nelle più anziane) con un aumento della sovradiagnosi.
In ogni modo, il medico di medicina generale può prescrivere un esame mammografico per un’eventuale diagnosi precoce anche nelle fasce d’età che non rientrano nello screening, ma la scelta deve essere motivata da particolari situazioni, come per esempio la presenza di tumori al seno nei familiari (sia donne sia uomini) e in età giovanili. Nel loro caso non si parla però di screening, ma si tratta di esami diagnostici prescritti sulla base di caratteristiche individuali.
Un esame come la mammografia non previene la malattia, cioè non protegge dal tumore, ma permette di diagnosticarlo in anticipo rispetto alla comparsa di segni e sintomi, aumentando le probabilità di cure efficaci e meno invasive, diminuendo di conseguenza la mortalità.
Occorre qui un chiarimento linguistico: secondo alcune indagini tra la popolazione, spesso si confondono i termini “prevenzione” e “diagnosi precoce”, creando a volte aspettative sbagliate.
Nel caso del tumore al seno, lo screening è un programma di prevenzione secondaria, che consiste in un percorso assistenziale con l’obiettivo di individuare un cancro al seno in fase iniziale, quando non ha ancora dato segno di sé con i sintomi. È un esame proposto a una popolazione sana in una determinata fascia d’età con alcune caratteristiche. Non è invece un controllo individuale da fare in caso di sintomi o in presenza di fattori di rischio per l’insorgenza della malattia. Un esame, per essere proposto come screening di popolazione, deve infatti essere:
La tecnica diagnostica utilizzata, la mammografia digitale a radiazioni ionizzanti (raggi X), utilizza un dosaggio molto basso di raggi X per individuare lesioni e noduli mammari. Sottoporsi a questo programma di screening permette di monitorare nel tempo l’evoluzione del tessuto mammario e i suoi cambiamenti. Nei casi in cui si riscontri una variazione del tessuto, noduli o altre anomalie, la paziente verrà invitata a sostenere ulteriori esami di approfondimento come la visita senologica, l’ecografia, la tomosintesi e la biopsia.
Negli ultimi anni è stata sperimentata una nuova tecnica radiologica, la tomosintesi digitale mammaria (DBT). Questa tecnologia offre un’analisi tridimensionale del seno, utilizzando sempre radiazioni a raggi X a basso dosaggio, anche se lievemente superiori a quelle della mammografia. La tecnica effettua scansioni del seno e restituisce immagini da più angolazioni, le quali combinate riproducono una ricostruzione tridimensionale del seno, migliorando l’accuratezza diagnostica. La DBT riesce a rilevare noduli anche molto piccoli e in profondità che spesso sfuggono alla mammografia tradizionale in 2D perché mascherate dalla sovrapposizione dei tessuti. Al momento non è però chiaro quanto la maggiore accuratezza di questo esame diagnostico possa avere un impatto sull’efficacia dello screening. La tomosintesi non è infatti in grado di ridurre i cancri “intervallo”, cioè i tumori che si sviluppano dopo uno screening risultato negativo, prima del test successivo. Nelle linee guida europee e italiane, gli esperti hanno stabilito che questa tecnologia può essere usata in alternativa alla mammografia (e non in associazione) come test di screening, mentre è raccomandata come esame di screening nelle donne con seno molto denso.
Per le donne ad alto rischio di sviluppare un tumore del seno, per esempio con mutazione BRCA o con sindromi genetiche di predisposizione, si utilizza anche la risonanza magnetica mammaria, una tecnica diagnostica in grado di rilevare lesioni che potrebbero sfuggire alla mammografia tradizionale, grazie all’elevata sensibilità. Gli esperti del National Cancer Institute statunitense ricordano però che, rispetto alla mammografia, la risonanza magnetica mammaria aumenta la probabilità di identificare masse che non sono di tipo tumorale.
Si stima che 1 donna su 10 circa che si sottopone allo screening avrà un risultato falso positivo. Questo ha possibili conseguenze negative sulla percezione di affidabilità degli screening, oltre ad aumentare stress e malessere nelle pazienti.
Inoltre, non è ancora chiaro se un numero maggiore di diagnosi porti necessariamente a esiti finali migliori, dato che un risultato falso positivo può aumentare la preoccupazione e portare a esami invasivi non necessari. Quindi, la decisione di utilizzare questa tecnica come utile strumento supplementare dovrebbe essere presa in considerazione dopo un’attenta riflessione che tenga conto dei rischi e dei potenziali benefici associati.
Torniamo sul concetto fondamentale di riduzione della mortalità. Qualsiasi screening per essere approvato deve dimostrare di diminuire la mortalità per la specifica malattia, e non solo di aumentare la sopravvivenza o il numero delle diagnosi. Esistono infatti forme tumorali a lentissima evoluzione e altri che possono addirittura non progredire. Tra gli esempi vi sono alcuni carcinomi della prostata e, per quanto riguarda il seno, la maggior parte dei carcinomi duttali in situ (DCIS). Si tratta della forma di cancro al seno più frequentemente diagnosticata, non invasiva, le cui cellule tumorali si trovano all’interno dei dotti galattofori e non sono diffuse. L’utilità dello screening e del trattamento di questa forma tumorale è ancora oggetto di controversie, perché in alcuni casi la malattia può non progredire, rendendo poco vantaggiosa una loro diagnosi precoce. I risultati di uno studio pubblicato su Lancet Oncology suggeriscono però che la probabilità di progredire a cancro invasivo di un DCIS è del 30% circa nel successivo controllo di screening.
Si stima che la riduzione della mortalità per cancro al seno in chi si sottopone regolarmente alla mammografia è maggiore del 30%. Nonostante questo, il dibattito sull’efficacia, i vantaggi e gli svantaggi dei programmi di screening è sempre aperto. Bisogna fare una premessa: è una questione complessa, ma è utile definire cosa intendiamo per programma di screening efficace. Spesso emerge confusione su questo tema, legata a un’interpretazione errata delle statistiche sui dati di screening.
Per un programma di screening:
È errato considerare efficace uno screening quando identifica un numero elevato di tumori, precocemente. Identificare precocemente tumori senza che questo ne possa modificare il decorso clinico non ha alcun vantaggio. Inoltre, alcuni tumori diagnosticati con uno screening potrebbero crescere così lentamente da non causare alcun problema e dunque non essere mai diagnosticati nel corso della vita di una donna, in assenza dei programmi di screening. Questo fenomeno viene chiamato sovradiagnosi. La sovradiagnosi, che non ha nulla a che fare con i falsi positivi, indica tumori effettivamente esistenti, indistinguibili però da quelli che avrebbero avuto uno sviluppo letale. Il fenomeno è intrinseco alla pratica di screening con cui si eseguono controlli separati da un determinato intervallo di tempo e inevitabilmente portano a diagnosi di un numero elevato di tumori, alcuni dei quali hanno appunto una crescita piuttosto lenta. Trattare questi tumori sarebbe evitabile e alcuni medici sostengono che si potrebbe utilizzare un protocollo di “vigile attesa”, come viene chiamato in medicina: non si interviene, ma si osserva l’eventuale evoluzione della piccola massa tramite mammografie ravvicinate nel tempo. A oggi non esiste un modo per definire, a parità di diagnosi, quale tumore potrebbe diventare pericoloso per la paziente. Per questo di solito, dopo la diagnosi, tutte le pazienti vengono comunque trattate e sottoposte a trattamenti indicati per la cura del cancro. Gli effetti della sovradiagnosi sono tuttavia contenuti, nonostante un articolo di cui si è parlato parecchio nel 2015, in cui si affermava affermava che l’effetto preponderante dello screening era una eccessiva diagnosi a fronte di un minimo miglioramento della mortalità. Recenti studi confermano che il 19% dei tumori al seno rientra in questi casi, ma che in modo particolare la sovradiagnosi ha effetti più marcati nella popolazione oltre i 70 anni. Poiché in questa fascia di popolazione vi è una minore aspettativa di vita, è dunque più probabile che un tumore diagnosticato precocemente non abbia il tempo di dare sintomi prima del decesso per altre cause.
Si potrebbe obiettare che la sovradiagnosi, e un certo numero di cure in eccesso, sono un rischio accettabile a fronte anche di una sola vita salvata. Gli epidemiologi tuttavia ragionano diversamente, dato che devono tener conto dell’effetto di uno screening sull’intera popolazione da esso interessata.
Esiste un altro elemento di cui le donne devono essere consapevoli. Anche se la dose di raggi somministrata con la mammografia è molto bassa, la Cochrane Collaboration, una rete di studiosi che si occupa di fare revisioni della letteratura scientifica, ha stimato che troppe mammografie possono costituire un fattore di rischio a causa della dose di raggi assorbita. Tuttavia, è difficile stimare di quanto contribuiscano all’aumento del rischio di cancro. In ogni caso, il rischio è molto contenuto e non paragonabile al vantaggio dato dalla riduzione di mortalità offerto. Esperti del National Cancer Institute statunitense, un ente che pure è favorevole allo screening per il tumore al seno, hanno stimato che per ogni 1.000 donne che si sottopongono annualmente a mammografia ve ne potrebbe essere una che si ammala a causa dell’irraggiamento. Considerato che la quantità di radiazioni, che può aumentare il rischio di cancro, si accumula nel corso della vita, è buona regola attenersi all’eseguire gli esami di screening solo con le cadenze e le modalità previste dai programmi di screening.
In generale gli oncologi sono più favorevoli allo screening, perché vedono i singoli casi salvati dall’esame, mentre gli epidemiologi e gli esperti di politica sanitaria, che guardano a grandi numeri con una visione d’insieme e con maggiore distacco, si accorgono anche dei potenziali effetti negativi di questa pratica e tendono a essere più restrittivi. Le decisioni collettive, che coinvolgono la gestione della salute di un intero Paese, dovrebbero essere prese in base a un insieme di considerazioni in cui i dati e le evidenze scientifiche dovrebbero avere un peso importante, anche perché gli screening costano molto e il denaro pubblico disponibile deve essere ripartito fra le iniziative di maggiore impatto per la salute pubblica.
Proprio per questo, l’estensione degli esami di screening a ulteriori fasce d’età è sotto attenta valutazione scientifica. Si vuole infatti evitare che donne più giovani o più anziane si sottopongano inutilmente a esami che potrebbero solo diagnosticare casi che non si sarebbero aggravati, o dare falsi positivi causando stress e preoccupazioni evitabili.
La decisione di sottoporsi a una mammografia al di fuori delle fasce d’età o delle periodicità raccomandate dai programmi di screening organizzati richiede un’attenta valutazione da compiere insieme al proprio medico di fiducia. La maggior parte delle istituzioni sanitarie e scientifiche – sia italiane, sia internazionali – sottolinea che non esiste una risposta unica e valida per tutte: ogni scelta dovrebbe essere fondata su un bilancio tra benefici attesi e potenziali rischi, considerando la storia clinica personale di ogni persona.
Una valutazione personalizzata può essere indicata, ad esempio, in presenza di fattori di rischio noti, come la familiarità per tumore al seno. In tali circostanze il colloquio con un medico competente e informato aiuta a chiarire vantaggi, limiti ed eventuali implicazioni psicologiche e cliniche, tra cui le possibilità di sovradiagnosi, la gestione di diagnosi ambigue e il fatto di sottoporsi ai controlli con tempi differenti rispetto a quelli raccomandati dai programmi di screening.
Un elemento importante da considerare, dati gli studi sui rischi dell’irraggiamento da mammografia, è la qualità del centro diagnostico: è preferibile rivolgersi a strutture specializzate, dotate di macchinari aggiornati e in grado di garantire l’utilizzo degli stessi nel rispetto delle normative europee. Inoltre, l’esperienza degli specialisti che interpretano le mammografie è determinante per ridurre il rischio di errori diagnostici. I programmi di screening organizzati, per ridurre gli errori, applicano sistematicamente una doppia lettura da parte di due radiologi. Un centro organizzato che effettua screening ha inoltre la possibilità di confrontare le immagini ottenute negli episodi precedenti e questo permette di valutare i cambiamenti nel tempo del tessuto mammario, aumentando l’accuratezza della mammografia negli screening successivi.
Il consiglio generale rimane di aderire ai programmi di screening di popolazione nelle fasce d’età raccomandate, rivolgendosi a centri con comprovata esperienza. Eventuali modifiche delle attuali indicazioni saranno possibili solo alla luce di nuove evidenze scientifiche, che potranno modificare il rapporto tra rischi e benefici.
Autore originale: Agenzia Zoe
Revisione di Denise Cerrone in data 5/09/2025
Agenzia Zoe