La chirurgia oncologica avanza nel silenzio

Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020

La chirurgia oncologica avanza nel silenzio

A fronte di grandi titoli sui media dedicati al nuovo farmaco o alla nuova tecnica diagnostica, la chirurgia non gode dei riflettori. Eppure negli ultimi anni ha fatto grandi progressi dal punto di vista sia tecnico sia concettuale.

Non una grande rivoluzione copernicana, ma tanti piccoli progressi quasi sempre impercettibili ai più. Così, con un andamento lento ma inesorabilmente progressivo, è cambiata la chirurgia oncologica negli ultimi vent'anni, sospinta da molti e diversi fattori di carattere tanto tecnico quanto culturale. Per questo oggi è molto più difficile che i malati non sopravvivano all'intervento o che ne escano menomati. E per questo oggi il chirurgo fa parte a pieno titolo dell'équipe che decide come impostare le cure, e non è più solo il collega cui inviare il malato ogni volta che si può, ma che esce di scena dopo l'intervento.

Spiega Ugo Pastorino, responsabile della Chirurgia toracica dell'Istituto nazionale tumori di Milano, uno dei settori che ha visto i maggiori progressi negli ultimi anni: "Innanzitutto bisogna inquadrare i mutamenti culturali. Fino agli anni ottanta si pensava che più l'intervento era radicale, maggiori erano le probabilità di successo. E poiché, in effetti, la farmacologia e la radioterapia offrivano un apporto limitato, l'idea aveva un suo fondamento, anche se negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale era stata portata a eccessi oggi impensabili. Coloro che intervenivano sul malato, e cioè, oltre al chirurgo, il radioterapista e l'oncologo medico, erano chiusi ciascuno nel proprio mondo, non si parlavano se non raramente e gestivano la propria parte di cura come meglio potevano, ma quasi mai in un'ottica di assistenza globale. Poi tutto è cambiato".

Mai più da soli

Pastorino si riferisce alla progressiva penetrazione del concetto di mutidisciplinarietà che, se per molti anni è sembrato solo uno slogan, oggi è davvero una realtà. "Ogni situazione viene analizzata da team che prevedono tutte le figure professionali, dal chirurgo all'oncologo medico, dal radioterapista al nutrizionista a, quando è possibile e necessario, altri protagonisti. Anche l'intervento, di conseguenza, viene inserito in un contesto globale, programmato con tempi e modalità improntati alla massima efficacia e alla minima compromissione della qualità della vita".

A influenzare le decisioni, spiega ancora il chirurgo, sono tanti fattori, tra i quali i farmaci: oggi ne esistono a decine, e in molti casi altamente specifici; decidere se somministrarne uno o più prima o dopo l'intervento è una scelta importante, che va fatta su ogni paziente in base alle sue specificità. Lo stesso vale per la radioterapia, ancora più potente e circoscritta. Le valutazioni globali sono quindi ormai imprescindibili, anche perché i pazienti, sempre più spesso, vivono a lungo, ed è quindi indispensabile approntare per ciascuno di loro un piano di cura che ne salvaguardi il più possibile la salute a tutti i livelli. "Si pensi, per esempio, agli anziani" continua Pastorino, "oggi si provvede a inquadrare il malato anche per quanto riguarda tutte le malattie concomitanti e, per esempio, a portare entro limiti di sicurezza la situazione cardiaca, o renale, o epatica, prima di iniziare le cure per il tumore".

Mini non è sempre meglio

Oltre a questo aspetto c'è poi quello fondamentale. Spiega il chirurgo: "Ogni passaggio ha subito grandi miglioramenti: dalla preparazione preoperatoria all'anestesia, dall'asportazione del tumore alla gestione delle fasi post operatorie fino alla prevenzione delle complicanze. Il risultato è un netto miglioramento degli esiti".

Ma oggi la chirurgia oncologica è anche parte attiva della ricerca a tutti i livelli, mentre un tempo ciò che veniva asportato era semplicemente buttato. Capire con quale tipo di tumore si sta combattendo è cruciale per la cura, e i chirurghi collaborano strettamente con gli anatomopatologi, così come con chi fa ricerca a livello biologico, genetico e molecolare valutando, per esempio, se un paziente ha risposto e come a una terapia assunta prima dell'intervento, o cercando le mutazioni specifiche e inserendo i dati raccolti in grandi banche dati. La ricerca, ricorda ancora l'esperto, contribuisce così non solo ad approfondire le conoscenze e a curare meglio il singolo, ma anche a migliorare le tecniche chirurgiche. E anche da questo punto di vista i progressi sono continui: "Si è passati da una fase nella quale il mantra 'mini è meglio' che aveva portato a errori anche gravi, perché si riteneva che quasi tutti gli interventi dovessero essere trasformati in qualcosa di meno invasivo, spesso eseguito in laparoscopia, a una fase più razionale, nella quale ogni tipo di approccio ha la sua collocazione specifica, quasi sempre supportata da sperimentazioni e valutazioni di grandi casistiche. Se si può e si è in grado di assicurare le stesse probabilità di guarigione si procede in modo mininvasivo, ma quando questo non è possibile, come avviene quasi sempre in chirurgia toracopolmonare, non si sacrifica più la possibilità di asportare la massa all'estetica, anche perché si riesce a intervenire molto meglio rispetto al passato".

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Progressi tecnologici

Ciò avviene anche perché gli ausili tecnologici disponibili oggi, sia per la diagnosi sia per le visualizzazioni durante l'operazione, e gli strumenti chirurgici stessi possono offrire supporti impensabili fino a pochissimo tempo fa. Uno dei casi più interessanti da questo punto di vista è quello dell'avvento della chirurgia robotica. Se per molti versi ha deluso le aspettative (vedi il box in fondo), dal momento che non assicura grandi benefici se non in sedi molto limitate e non consente di modificare rapidamente il tipo di asportazione una volta analizzata la situazione, per altri ha permesso un avanzamento tecnologico anche nella chirurgia gestita direttamente dal medico. "Oggi disponiamo di strumenti miniaturizzati che in parte sfruttano la tecnologia messa a punto per i robot chirurgici, e in questo modo abbiamo la possibilità di vedere molto meglio, e di intervenire con strumenti davvero inimmaginabili solo una trentina di anni fa" spiega Pastorino. "Inoltre possiamo ricostruire interi segmenti, sia con protesi sia con trapianti autologhi, e anche questo aiuta a preservare la qualità di vita e la funzionalità degli organi colpiti".

Anche da questo punto di vista, quindi, la rivoluzione c'è stata ed è tuttora in corso. Non uno tsunami, ma una serie di sommovimenti che danno un contributo fondamentale al continuo miglioramento dei tassi di sopravvivenza dopo una diagnosi di tumore.

Figlia di un dio minore

Di chirurgia oncologica, nei mezzi di comunicazione, si parla poco. Eppure è imprescindibile in molte forme tumorali. Come mai? E che conseguenze può avere questo scarso interesse? I motivi sono da ricercarsi soprattutto in un retaggio storico: per anni, nella seconda metà del Novecento, le procedure sono state sempre improntate a un unico scopo: l'asportazione più radicale possibile delle masse tumorali. Ciò avveniva perché non c'era molto a disposizione e si sapeva che ogni cellula tumorale rimasta poteva costituire un rischio mortale. Poco importava, quindi, se la qualità di vita del malato (che non di rado non sopravviveva all'operazione, nei casi di tumore più avanzato) diventava pessima. D'altro canto, la chemioterapia prima e le terapie a bersaglio molecolare poi e, da ultimo, l'immunoterapia, trasmettevano ai malati la sensazione che la farmacologia stesse facendo grandi progressi, e avrebbe forse presto potuto garantire l'addio al bisturi. Risultato: secondo uno studio della BBC, tra il 1998 e il 2006 il 20% di tutte le notizie pubblicate dalla principale televisione britannica e dai suoi siti internet ha riguardato farmaci contro il cancro.

Ma il fenomeno ha importanti ripercussioni perché influenza i finanziamenti e le scelte di politica sanitaria. E non riflette la realtà. Fortunato Ciardiello, presidente della European Society for Medical Oncology, di recente così ha commentato, sulla rivista Cancer World, la situazione attuale: "L'opinione pubblica non si rende conto del fatto che curare il cancro è una questione molto complessa e richiede la competenza di diverse figure professionali, che devono lavorare in istituzioni sanitarie che funzionino bene e il cui ruolo si armonizzi con quelli degli altri specialisti nell'ambito di una rete che parte dal medico di base e arriva fino ai centri ad altissima specializzazione oncologica. La chirurgia, in molte forme tumorali, è fondamentale, per la sopravvivenza a lungo termine. È necessario aumentare il numero di sperimentazioni cliniche che coinvolgono direttamente l'aspetto chirurgico, in modo che gli interventi entrino a pieno titolo nelle linee guida internazionali".

Il robot? Solo in casi specifici

Il chirurgo può essere sostituito, almeno in alcuni casi, dal robot? La domanda aleggia ormai da anni, da quando cioè ha iniziato a diffondersi la chirurgia robotica. Le casistiche pubblicate hanno sempre dato risultati contrastanti, dalle quali emerge che non c'è una regola buona per tutti: in alcuni casi il robot può essere una soluzione, in altri è meglio continuare ad affidarsi all'operatore umano. Una delle ultime ricerche in ordine di tempo, pubblicata su Lancet, conferma che nel carcinoma della prostata effettivamente il robot può aiutare, almeno per quanto riguarda alcune complicanze post operatorie, ma non garantisce un netto vantaggio rispetto alle mani dello specialista per quanto riguarda il tumore.

Nello studio gli esperti dell'Ospedale universitario di Brisbane, in Australia, hanno reclutato circa 300 malati, tutti con un'età compresa tra i 35 e i 70 anni, senza altre malattie gravi, e li hanno sottoposti a un intervento tradizionale oppure a uno effettuato con il robot, e sono poi andati a vedere gli effetti sulla continenza urinaria e sulla funzionalità sessuale, trovando che non vi erano differenze significative a 6 e 12 settimane dall'intervento, e che lo stesso valeva per quanto riguarda il successo in termini di asportazione della massa; tuttavia, la procedura robotizzata è risultata associata a un tasso minore di sanguinamenti post chirurgici, e potrebbe essere indicata in alcuni malati più fragili di altri. Il dato è in linea con altre casistiche pubblicate negli ultimi anni, ma è valido solo per quanto riguarda il carcinoma prostatico, mentre per altri tumori la discussione è ancora aperta.

  • Agnese Codignola