Un seno nuovo dopo la malattia

Negli ultimi anni la ricostruzione della mammella è entrata a far parte a pieno titolo della cura del cancro al seno: la donna oltre che guarire può così riprendere una vita del tutto normale, sentendosi a proprio agio in ogni situazione.

Ultimo aggiornamento: 23 marzo 2023

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Introduzione

La ricostruzione del seno è considerata oggi parte integrante della cura del cancro, tanto che è a carico del Servizio sanitario nazionale. A mano a mano che la malattia diventa sempre più curabile, si fa infatti più pressante l’esigenza che lasci meno conseguenze possibili, anche dal punto di vista estetico. Nei casi in cui la mastectomia totale non può essere evitata, esistono soluzioni tali da permettere alla donna di non viverla come una mutilazione.

A questo scopo è bene rivolgersi ai centri con maggiore casistica ed esperienza, che ormai si trovano in tutta Italia, dove anche i chirurghi plastici, così come nel loro campo fanno gli oncologi, mettono a punto e sperimentano soluzioni sempre più mirate per ogni paziente.

Ogni caso è diverso dall’altro e richiede un approccio concordato tra la donna e i diversi specialisti nel campo. Per questo motivo le decisioni non dovrebbero dipendere da un unico referente terapeutico, ma essere frutto di discussioni collegiali e di un lavoro di équipe che comprende medici chirurghi senologi e plastici, radioterapisti e oncologi, infermiere specializzate e psicologi.

Intervento su misura

Per il tipo di intervento di ricostruzione più adatto, e per i suoi tempi, non esistono regole assolute: per ogni donna dovrebbe essere scelta la strategia più adatta.

Nel prendere una decisione non bisogna considerare solo la dimensione del nodulo e la sua posizione, ma anche le caratteristiche originarie del seno, la sua misura e la sua forma, la conformazione fisica generale della donna, la sua età, come anche i suoi desideri e le sue aspettative. Il tutto, però, va ovviamente subordinato alla cura della malattia, che deve sempre essere l’obiettivo prioritario.

Per quanto riguarda il momento più adatto per intervenire, oggi si preferisce, quando possibile, effettuare la ricostruzione già nel corso dell’intervento per l’asportazione del tumore. Esistono però casi in cui può essere più opportuno rimandare questa fase a un momento successivo: la ricostruzione può infatti avvenire anche a distanza di mesi o perfino anni.

Espansori e protesi

Prima dell'impianto definitivo della protesi, nei mesi successivi all’intervento e per tutta la durata delle terapie adiuvanti, la normale procedura prevede la collocazione di un dispositivo (espansore), sotto il muscolo pettorale. L’espansore è un palloncino che viene progressivamente gonfiato con soluzione fisiologica allo scopo di distendere i tessuti e facilitare il successivo posizionamento della protesi vera e propria.

Le protesi mammarie attualmente sul mercato possono essere utilizzate indifferentemente per la chirurgia estetica o ricostruttiva; tutte hanno un involucro esterno in silicone e un contenuto in silicone gel o soluzione fisiologica. Esiste un’ampia gamma di protesi diverse per dimensioni, forma (a goccia o rotonda) e tipo di superficie (liscia o ruvida). Le protesi con superficie ruvida sono dette “testurizzate” e sono quelle più utilizzate.

In alternativa alle protesi, per la ricostruzione è possibile utilizzare lembi di tessuto prelevati dall’addome o dalla schiena: il risultato è sicuramente più naturale ma l'intervento è decisamente più lungo e impegnativo, così come i tempi di recupero.

Rischi contenuti

I rischi connessi all’impianto di protesi, sia per ragioni ricostruttive sia per ragioni estetiche, sono limitati. Potenzialmente le protesi possono durare tutta la vita, ma esiste la possibilità di una rottura spontanea, anche se generalmente solo dopo alcuni anni dall’intervento. Per questo rimane importante che in occasione del controllo annuale le pazienti vengano sottoposte anche a un’ecografia o a una risonanza magnetica per verificare le condizioni della protesi. Non appena si osservano segni di usura, la protesi può essere sostituita.

La presenza delle protesi può rendere più complicata l’esecuzione delle mammografie. Le “Linee guida europee per la garanzia di qualità nello screening e la diagnosi del tumore della mammella” raccomandano di eseguire la mammografia in centri dove sia possibile effettuare anche l’ecografia, dato che l’aggiunta di altre tecniche di imaging può fornire informazioni più complete. È molto importante che il tecnico radiologo abbia una formazione e un’esperienza adeguate, in modo da eseguire la mammografia nel modo corretto. Per esaminare meglio la porzione di tessuto mammario nascosta dalla protesi, che risulta opaca ai raggi X, oltre alle immagini standard si acquisiscono immagini supplementari usando la cosiddetta manovra di Eklund: il radiologo spinge delicatamente la protesi contro la parete toracica, portando in avanti il tessuto mammario.

È da notare, comunque, che dopo una mastectomia, di solito, non sono più considerate necessarie mammografie di routine, dal momento che la ghiandola mammaria è stata rimossa. Ovviamente rimane indicata se la mastectomia non è bilaterale, quindi per il controllo della mammella rimasta.

Le protesi mammarie non provocano il tumore al seno. Si è osservato che una piccola percentuale delle donne a cui sono impiantate ha sviluppato una forma di linfoma, un tumore del tessuto linfatico, chiamata “linfoma anaplastico a grandi cellule associato a impianti protesici mammari” (BIA-ALCL). È comunque un tumore estremamente raro: in Italia, dove il Ministero della salute ha introdotto da anni un registro obbligatorio, si sono verificati 92 casi tra il 2010 e il 2022, con due casi di decesso. L’incidenza, ovvero il numero di casi di BIA-ALCL sul totale delle pazienti con protesi è di circa 3 su 100.000. Attualmente nel mondo, a fronte di decine di milioni di pazienti con impianti, il numero di casi di BIA-ALCL resta estremamente basso (a oggi le stime parlano di circa 1200 casi a livello globale). Inoltre, dati i numeri limitati, la statistica non permette di stabilire con certezza l’associazione tra l’impianto e l’insorgenza di questa patologia. Il BIA-ALCL è comunque un tumore che ha una prognosi estremamente favorevole quando viene diagnosticato tempestivamente. Nella maggior parte dei casi è sufficiente rimuovere la protesi e la capsula di tessuto fibroso che la circonda per ottenere la guarigione completa. Nei rari casi in cui il tumore si è diffuso ai linfonodi o ad altri organi, si ricorre alla chemioterapia. Le pazienti portatrici di protesi mammarie a seguito di mastectomia per un tumore non hanno bisogno di ulteriori esami oltre quelli richiesti dai normali follow-up oncologici. Le donne che si sono sottoposte all’impianto delle protesi per motivi estetici dovrebbero sottoporsi a regolari controlli.

I sintomi che possono fare sospettare la presenza di BIA-ALCL sono due: il più frequente è un sieroma (un accumulo di linfa) comparso in corrispondenza della protesi almeno un anno dopo l’impianto e non dovuto a un trauma o a un’infezione; un altro possibile sintomo è una reazione fibrotica molto marcata. La paziente deve quindi prestare attenzione a un eventuale aumento di volume del seno o alla comparsa di un’asimmetria fra le mammelle. La causa del BIA-ALCL non è nota. Le ipotesi per ora comprendono la predisposizione genetica, la presenza di particolari composti nelle protesi e la presenza di infiammazioni croniche, dovute per esempio alle caratteristiche della superficie della protesi o a contaminazioni batteriche. Non è neppure noto perché solo una piccola minoranza di pazienti sviluppi il tumore.

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Salvare il capezzolo quando si può

Per molto tempo, negli interventi di mastectomia era prassi asportare sempre areola e capezzolo. Analizzando i tessuti asportati i chirurghi però si sono accorti che la percentuale invasa da cellule tumorali era minima, nell’ordine dell’1-2 per cento: un valore statisticamente troppo basso per giustificare una mutilazione che, dal punto di vista psicologico, per una donna è molto pesante. Per questo motivo è stata sviluppata una tecnica che permette di preservare questa zona, detta chirurgia nipple sparing, che permette di rimuovere la ghiandola mammaria ma conservare la cute sovrastante (comprendente il capezzolo e l’areola). A questo tipo di chirurgia è associato, nel corso dell’intervento stesso, un controllo delle cellule nell’area del capezzolo e dell’areola per assicurarsi non vi siano cellule cancerose, nonché la biopsia del linfonodo sentinella. Nella maggior parte dei casi la sensibilità è compromessa, ma si conserva la capacità erettile del capezzolo. Questo tipo d’intervento facilita anche la ricostruzione del seno, che può avvenire durante la mastectomia, e accorcia la degenza post-operatoria.

Non in tutte le mastectomie, però, si può adottare questa tecnica. Per evitare rischi occorre prima di tutto che il tumore si trovi a debita distanza dal capezzolo, per cui non è possibile se il tumore interessa anche l’areola e il capezzolo, la cute, se si tratta di un carcinoma infiammatorio, o se è localmente avanzato. In ogni caso, si può di solito anche ricostruire l’areola e il capezzolo, un tipo d’intervento che può essere eseguito in anestesia locale: per il capezzolo si usa una piccola porzione di tessuto cutaneo locale, intorno al quale l’areola è tatuata o ricostruita con un altro lembo di tessuto.

Ricostruzione senza protesi

Non sempre è necessario rimuovere l’intera ghiandola mammaria: per esempio, se il tumore è a uno stadio precoce, può essere possibile ricorrere a una quadrantectomia, ossia la rimozione solo parziale che elimina il tumore e una parte del tessuto circostante. In questo caso, il seno potrà poi essere rimodellato con diverse tecniche (a seconda di dove sia avvenuta la rimozione) senza ricorrere a protesi.

Una tecnica relativamente nuova nel campo della mastoplastica è il lipofilling, una strategia normalmente impiegata nella chirurgia estetica che permette di colmare i difetti dei tessuti molli, di piccole e medie dimensioni, riempiendo possibili avvallamenti che rimangono dopo sia un’operazione di chirurgia conservativa sia una mastectomia per tumore alla mammella.

Il grasso aspirato dalle cosce o dall’addome viene opportunamente trattato e purificato per poi essere impiantato con microaghi direttamente nel seno. Dopo tre o quattro di questi trattamenti, a distanza di tre mesi l’uno dall’altro, anche le mammelle in cui la radioterapia ha reso la pelle secca e poco vascolarizzata possono tornare ad avere una cute morbida ed elastica. Il merito è principalmente delle cellule staminali contenute nel tessuto adiposo, che possono ricostituire ex novo i tessuti. Il trapianto di grasso non interferisce nemmeno in maniera significativa con la lettura delle mammografie di controllo successive, come invece si temeva. Inoltre, trattandosi di tessuto proveniente dalla donna stessa, si evita il rischio di rigetto o infiammazione.

Prima e dopo la cura

Quando l’intervento riguarda un solo seno, la maggior parte delle donne si ritiene soddisfatta del risultato, anche se la simmetria tra i due seni di solito non può essere perfetta.

La ricostruzione o il rimodellamento del seno in una donna a cui è stato asportato un tumore è infatti cosa ben diversa dal ritocco richiesto per ragioni esclusivamente estetiche. Non bisogna avere aspettative irrealistiche. I risultati che oggi si possono ottenere sono molto soddisfacenti, ma difficilmente paragonabili a quelli raggiunti quando una donna sana si sottopone alla stessa operazione. L’impianto della protesi dà al seno operato un aspetto più giovanile rispetto a quello non operato, perché resta più alto. Per ristabilire la simmetria, normalmente si interviene con la mastopessi, l’intervento di chirurgia estetica usato per risollevare i seni, sollevando anche il seno controlaterale, e contemporaneamente allineando le dimensioni delle due parti. Intervenendo anche sulla mammella controlaterale al tumore si cerca così di mantenere il più possibile una simmetria.

La protesi al silicone ha infatti comunque una consistenza e una mobilità diverse da quella del tessuto naturale per cui, per esempio, quando la donna si sdraia non segue la gravità come il seno sano; le cicatrici, poi, che nella chirurgia estetica vengono lasciate in zone nascoste, nel caso della chirurgia ricostruttiva talvolta possono essere più visibili perché dipendono dalla posizione in cui si trovava il tumore. Anche in questo campo, però, sono stati fatti molti progressi.

Chirurgia estetica e chirurgia plastica ricostruttiva

Molti pensano che la chirurgia estetica e quella plastica ricostruttiva siano la stessa cosa, tanto che spesso i due termini sono usati in maniera intercambiabile. Le due specialità hanno invece obiettivi molto diversi tra loro, anche se di frequente utilizzano tecniche e materiali comuni. Alcune tecniche possono essere mutuate reciprocamente ma gli obiettivi che hanno e il contesto in cui operano sono molto diversi. Il fine principale della chirurgia ricostruttiva è ripristinare la funzione dell’organo o tessuto interessato, mentre per la chirurgia estetica il fine è – come dice il nome stesso – di migliorarli dal punto di vista estetico.

La maggior parte di coloro che oggi cercano di restituire alla donna un aspetto il più naturale possibile sono chirurghi generali che hanno appreso le tecniche della ricostruzione o, viceversa, chirurghi plastici che si sono specializzati nella cura del seno. Sempre più sta emergendo, soprattutto per i tumori della mammella, la figura del chirurgo oncoplastico, che impara fin dall’inizio del suo percorso formativo a rimuovere il tumore salvaguardando il più possibile la qualità di vita delle pazienti, curando quindi anche gli aspetti estetici e funzionali del seno. Recentemente l’attenzione della chirurgia ricostruttiva si sta rivolgendo anche a diverse forme di cancro e non è più diretta solo ed esclusivamente al seno.

  • Roberta Villa