I bambini ad alto rischio non sono tutti uguali

Ultimo aggiornamento: 16 ottobre 2018

Anche fra le forme più aggressive di leucemia linfoblastica acuta infantile ci sono sostanziali differenze che è bene riconoscere per impostare la migliore terapia.

Titolo originale dell'articolo: Childhood high-risk acute lymphoblastic leukemia in first remission: results after chemotherapy or transplant from the AIEOP ALL 2000 study

Titolo della rivista: Blood

Data di pubblicazione originale: 1 marzo 2014

I continui miglioramenti ottenuti nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta del bambino e dell'adolescente dipendono anche dalla capacità di identificare i sottogruppi dei pazienti che richiedono una chemioterapia più aggressiva, un trapianto in una fase precoce o l'introduzione di approcci innovativi. Lo studio del Gruppo AIEOP (Associazione Italiana di Emato-Oncologia Pediatrica), condotto col sostegno di AIRC e pubblicato recentemente sull'importante rivista Blood, rappresenta in questo senso un nuovo progresso.

In un gruppo iniziale di quasi 2.000 bambini con leucemia linfoblastica acuta, la ricerca ha analizzato i dati relativi a oltre 300 piccoli pazienti definiti "ad alto rischio" sulla base di almeno uno dei seguenti criteri: la persistenza di una significativa "malattia residua minima" (MRD), cioè un alto numero di cellule tumorali a 78 giorni dall'inizio del trattamento; l'assenza di una remissione completa dopo il primo mese di cure; una particolare anomalia cromosomica nelle cellule tumorali, cioè la traslocazione chiamata t(4;11); una scarsa risposta alla terapia iniziale con il cortisonico prednisone.

«Lo studio ha messo in evidenza che la sopravvivenza a 5 anni di questi bambini, e ancora più la sopravvivenza senza ripresa della malattia, cambia a seconda dell'elemento per cui i piccoli pazienti erano stati considerati ad alto rischio» spiega Andrea Biondi, direttore della clinica pediatrica dell'Università di Milano-Bicocca, Monza. «I bambini e gli adolescenti con leucemia linfoblastica acuta ad alto rischio non sono tutti uguali e la valutazione accurata della qualità della risposta morfologica e molecolare permette di personalizzare il trattamento». Lo studio ha permesso di descrivere i fattori che più importanti per la prognosi della malattia. «Se per esempio il paziente è stato classificato ad alto rischio per la scarsa risposta al prednisone, l'andamento della malattia tende comunque a essere più favorevole. Al contrario, quelli che hanno una risposta molecolare non soddisfacente (elevata malattia residua minima), non raggiungono la remissione alla fase dell'induzione o hanno la traslocazione t(4;11). Ovvero sono i pazienti per i quali è indispensabile prevedere l'introduzione di farmaci e strategie innovative per migliorare i risultati, anche quando venga eseguito il trapianto. I risultati dello studio sono rilevanti perché è solo attraverso un'accurata definizione del rischio dei pazienti che si può evitare tossicità inutile di terapie troppo intensive e nello stesso tempo si possono identificare quei pazienti che necessitano di terapie innovative» conclude Biondi.

  • Agenzia Zadig