Le armi dell'organismo per combattere la malattia

Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020

Le armi dell'organismo per combattere la malattia

Usare il sistema immunitario per combattere il cancro: un sogno lungo oltre un secolo che comincia a trasformarsi in solida realtà grazie alla tenacia di tanti ricercatori. Inizia con l'immunoterapia una nuova serie di articoli di Fondamentale che vuole raccontare quali saranno i filoni di ricerca più promettenti nel prossimo futuro.

Nella storia dell'oncologia non è nuova l'idea di utilizzare le difese immunitarie dell'organismo per contrastare la crescita e la diffusione del tumore. "Ci avevano pensato già più di cento anni fa i pionieri della medicina moderna, ma la scienza non era ancora pronta né dal punto di vista delle conoscenze né da quello delle tecnologie disponibili" spiega Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Istituto clinico Humanitas e docente di Humanitas University, alle porte di Milano.

Un cambio di paradigma

Nel 2000 Douglas Hanahan e Robert Weinberg pubblicarono sulla rivista Cell un articolo che per anni fu considerato un punto di riferimento per lo studio del cancro, cristallizzando l'attenzione sulla cellula tumorale, senza prendere in considerazione niente al di fuori della cellula neoplastica. Una visione che gli anglosassoni chiamano "cencer cell centered" e che potrebbe essere tradotta come "cancrocentrica", a sottolineare l'opinione che l'unica componente ad avere un ruolo nella malattia è la cellula cancerosa. "Gli immunologi, e io mi metto in prima fila, non hanno mai creduto fino in fondo a questa visione" afferma Mantovani, che poi aggiunge: "Abbiamo sempre pensato che anche il microambiente che circonda il tumore giocasse un ruolo di primo piano". E in effetti, complici anche le sempre più numerose prove scientifiche a sostegno dell'idea degli immunologi, nel 10 anni successivi si assistette a un cambio di paradigma: la comunità scientifica oggi è concorde nel riconoscere l'importanza della "nicchia ecologica" che circonda il tumore e che è fatta anche di cellule del sistema immunitario. "Nei decenni abbiamo assistito a diversi tentativi e diversi fallimenti in questo campo, fino alla fine dello scorso millennio, quando per la prima volta si ebbe la prova che anticorpi monoclonali creati ad hoc potevano curare il cancro" aggiunge l'esperto, uno degli immunologi più attivi e riconosciuti a livello internazionale, che da sempre opera con il sostegno di AIRC.

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I traguardi già raggiunti

L'immunoterapia del cancro è rappresentata concretamente da una serie di farmaci e di approcci anche diversi tra loro che puntano però verso un unico traguardo: sfruttare le potenzialità del sistema immunitario per vincere il tumore. "Non dimentichiamo che quotidianamente il sistema immunitario distrugge la maggior parte dei tumori che compaiono spontaneamente nell'organismo" ricorda Mantovani, sottolineando che a volte le difese hanno bisogno di un aiuto per riconoscere le cellule tumorali o per dare il via a una risposta abbastanza forte per eliminarle.

Gli anticorpi monoclonali rappresentano senza dubbio uno dei primi e più grandi successi di questa branca dell'oncologia. Sono molecole disegnate su misura per riconoscere una particolarità della cellula tumorale e legarsi a essa. Una volta raggiunto l'obiettivo, l'anticorpo stimola una risposta immunitaria contro il tumore, oppure distrugge direttamente la cellula malata grazie a sostanze che porta con sé. "Molti tumori sono oggi trattati con questi farmaci: leucemie, linfomi, tumore del colon, della mammella e molti altri ancora" spiega Mantovani. Un altro grande successo dell'immunoterapia sul cancro riguarda i cosiddetti checkpoint, ovvero i "freni" che bloccano le difese dell'organismo contro il cancro. Il primo di questi freni a tradursi in un beneficio clinico si chiama CT-LA4. "Anticorpi che tolgono questo freno hanno avuto un impatto enorme in clinica, mostrando risultati mai visti in un tumore aggressivo come il melanoma avanzato" racconta Mantovani. I risultati in effetti lasciano a bocca aperta: in un tumore per il quale non si era visto alcun progresso in termini di cura, una quota attorno al 20-22 per cento dei pazienti è oggi apparentemente guarita dopo 10 anni. La ricerca sui "freni molecolari" non si è fermata a CTLA4: ne sono stati identificati altri, alcuni dei quali già sfruttati oggi come bersaglio. PD-1 e PD-L1 rappresentano due esempi che hanno mostrato risposte cliniche in tumori diversi, dal polmone, ai tumori di testa-collo, del colon-retto, della vescica, in una lista che si allunga quasi ogni giorno.

Tante sfide ancora aperte

I risultati finora ottenuti sono entusiasmanti ma, come ricordano gli esperti, siamo solo all'inizio del percorso: "Siamo come i fratelli Wright ai loro primi voli e abbiamo di fronte sfide enormi" dice Mantovani che poi ne elenca alcune. Si dovrà pensare di togliere nuovi "freni" oppure di toglierne due contemporaneamente invece di uno solo, come si sta già facendo in via sperimentale in alcuni tumori con risultati molto promettenti. "Ricordiamo che oggi le risposte eclatanti dell'immunoterapia riguardano circa il 20 per cento dei pazienti. Cosa succede agli altri? Perché non rispondono?" si chiede Mantovani indicando altre sfide da raccogliere nei prossimi anni, come per esempio la combinazione di diverse immunoterapie o delle terapie immunologiche con quelle più tradizionali come chemio e radioterapia.

"C'è poi tutto il capitolo molto interessante e promettente delle terapie cellulari e della rieducazione delle cellule immunitarie, oggi ancora in fase sperimentale, ma prossime all'utilizzo in clinica" aggiunge l'esperto. Piuttosto vicine all'uso clinico sono per esempio le cellule T chiamate CAR (Chimeric Antigen Receptor), cellule modificate per riconoscere meglio la cellula tumorale usando, invece del recettore della cellula T, un super recettore più sensibile. L'uso di queste cellule ha già dato grandi risultati nelle leucemie linfatiche del bambino e AIRC con i suoi finanziamenti legati al 5 per mille sta sostenendo da tempo terapie cellulari originali con CAR-T al Bambin Gesù di Roma (Franco Locatelli) e all'ospedale San Gerardo di Monza (Andrea Biondi) e con cellule dette "natural killer" agli Ospedali riuniti di Bergamo (Alessandro Rambaldi), il tutto integrato per aumentare la sinergia tra le terapie, con risultati molto promettenti.

Infine, ma non certo meno importante, c'è il grande capitolo dei vaccini. "Si tratta di una delle sfide scientifiche più grandi, soprattutto perché siamo abituati a pensare ai vaccini in termini di prevenzione e non di terapia vera e propria, come invece fanno alcuni vaccini pensati per l'immunoterapia del cancro" dice Mantovani, spiegando che in questo caso, anziché usare una parte di virus o di batterio per scatenare la risposta immunitaria, si crea il vaccino partendo da un "pezzetto" della cellula tumorale.

Il gioco vale la candela

Anche se molti aspetti delle nuove terapie sono ancora da chiarire, i risultati finora ottenuti suggeriscono che l'immunoterapia potrà davvero contribuire in grande misura alla cura del cancro, ma non è certo corretto pensare a una soluzione miracolosa. Pur essendo basata sulle difese dell'organismo stesso, questa strategia ha effetti collaterali e un certo grado di tossicità, come accade per qualunque intervento terapeutico. Basti pensare che i "freni" sono presenti per evitare che il sistema immunitario "corra troppo" e attacchi le cellule sane dell'organismo. "Le immunoterapie che tolgono i freni sono associate per esempio a infiammazioni intestinali oppure ad autoimmunità contro la tiroide e le ghiandole endocrine" afferma Mantovani precisando però che, nella maggior parte dei casi, il gioco vale la candela perché accettando un'infiammazione intestinale, che si può controllare grazie a farmaci vecchi e nuovi, si riesce per esempio a curare il tumore.

"È molto importante che i pazienti continuino a farci da maestri e che noi medici continuiamo a imparare da loro e a osservarli se vogliamo usare meglio queste armi. Per questo è fondamentale che i pazienti si rivolgano a centri nei quali si fa anche ricerca: così facendo aiuteranno se stessi e chi verrà dopo di loro" conclude Mantovani.

L'Italia in prima linea

Sono molti i progressi della ricerca scientifica "made in Italy" anche nell'immunoterapia del cancro, un contesto nel quale l'Italia è sempre in prima linea con l'impegno di tanti brillanti ricercatori. Michele Maio, a Siena, è uno dei ricercatori più attivi in questo settore; Carlo Riccardi a Perugia ha identificato la molecola Gitr, uno dei "freni" del sistema immunitario, mentre Paola Allavena e Maurizio D'Incalci a Milano hanno dato un contributo importante nella messa in campo di una terapia basata su trabectedin, un farmaco antitumorale che funziona anche contro le cellule del sistema immunitario che diventano "complici" dello sviluppo tumorale e sono quindi definite i "poliziotti corrotti". Questi sono solo alcuni tra i tanti nomi, tutti ad alto livello, che si occupano dell'immunoterapia del cancro in Italia e che AIRC ha sempre sostenuto. "AIRC deve essere fiera di aver continuato a sostenere tale ricerca anche quando gli esperti mondiali non la consideravano importante e quando la maggior parte degli oncologi medici non credeva nell'efficacia dell'immunoterapia. Senza la lungimiranza di AIRC non avremmo raggiunto questi grandi successi" spiega Mantovani, coordinatore di un progetto speciale AIRC 5 per mille focalizzato proprio su questo approccio.