Leucemia linfoblastica acuta: quando è bene poter scegliere tra mamma e papà

Ultimo aggiornamento: 23 agosto 2018

Un marcatore identificato nelle cellule dei donatori di cellule staminali emopoietiche permette di identificare con quali donatori si può ridurre il rischio di ricadute dopo un trapianto aploidentico.

Titolo originale dell'articolo: KIR B haplotype donors confer a reduced risk of relapse after haploidentical transplantation in children with acute lymphoblastic leukemia.

Titolo della rivista: Blood

Data di pubblicazione originale: 1 agosto 2014

La maggior parte delle leucemie linfoblastiche acute dell'infanzia oggi si curano, e guariscono, con la chemioterapia. In alcuni casi, però, per estirpare la malattia, è necessario ricorrere al trapianto di cellule staminali emopoieticheda un donatore, il più possibile compatibile con il paziente. Una totale concordanza dei geni, detti di istocompatibilità (in sigla HLA), che permette di ridurre al massimo il rischio di rigetto si trova però solo nel 25% dei fratelli. La probabilità di trovare un tale livello di compatibilità nei registri dei donatori, è del 40% circa. Non è raro quindi che non ci sia un donatore perfettamente compatibile. Si può allora provare a effettuare un trapianto detto aploidentico, da una persona che condivida con il paziente solo parte dei geni coinvolti, come accade nel caso di entrambi i genitori e di qualunque fratello: aumentano così le chance di trovare un donatore per il trapianto, ma si riduce la possibilità di un completo successo.

Nell'ambito del Programma AIRC di oncologia clinica molecolare guidato da Alberto Mantovani, Franco Locatelli, dell'Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma, in collaborazione con Lorenzo Moretta, dell'Istituto Giannina Gaslini di Genova, ha scoperto un modo per identificare, tra i possibili donatori, quelli che possono garantire al paziente risultati migliori. "Lo studio pubblicato su Blood dimostra che le prospettive di successo con l'uno o con l'altro di due possibili donatori possono essere calcolate a priori ed essere molto diverse tra loro" spiega Mantovani. "Se infatti le cellule del sistema immunitario del donatore chiamate linfociti T killer sono portatrici di geni KIR di tipo B, la sopravvivenza del bambino trapiantato, senza ricomparsa della malattia, è maggiore del 20% rispetto ai casi in cui il donatore ha geni KIR di tipo A".

La scoperta quindi ha un impatto clinico notevole: "L'analisi genetica di questo marcatore dovrebbe essere inclusa nei test che si effettuano prima di un trapianto per la selezione del donatore, per poter scegliere, quando possibile, quello che offra al bambino maggiori possibilità di guarigione" conclude il Alberto Mantovani, coordinatore del programma e direttore scientifico della Fondazione Istituto clinico Humanitas.

  • Agenzia Zadig